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Termoli, Stellantis spegne il Fire: 450 posti a rischio. La Gigafactory resta un miraggio

Chiusura imminente del reparto motori storici, incertezze su cambio e transizione green. I sindacati denunciano: «Nessuna nuova produzione all’orizzonte, stabilimento senza futuro oltre il 2030»

Stellantis, Davide Mele, torino, mirafiori,

Dipendente Stellantis

È previsto per questo mese di maggio l'addio definitivo alla linea di montaggio dello storico motore Fire nello stabilimento Stellantis di Termoli. Un’uscita di scena carica di simbolismo e inquietudine, confermata dai sindacati che oggi hanno preso parte al consiglio di fabbrica. Al centro dell’incontro, le incognite occupazionali e il futuro stesso di uno degli impianti simbolo della motoristica italiana.

A Termoli si volta pagina, ma la nuova sembra ancora tutta da scrivere. Fim, Uilm, Uglm e Fismic hanno espresso forte preoccupazione per la chiusura dell’intero reparto dedicato al Fire, un motore che ha segnato un’epoca nella storia della Fiat e che oggi esce di scena senza un’erede certo all’orizzonte. Il reparto in questione conta circa 450 lavoratori, la cui sorte è sempre più incerta in uno stabilimento in cui le altre produzioni arrancano.

«La produzione dei motori 2000 benzina (GME) – spiegano i sindacati – non ha un orizzonte a lungo termine: si tratta di un propulsore esportato quasi totalmente negli Stati Uniti, dove a breve verrà sostituito da un modello prodotto direttamente in America. Anche il mille e il millecinquecento (GSE) lavorano ben al di sotto della capacità massima e fanno ampio ricorso alla cassa integrazione».

Lo scenario che si apre è tutt’altro che rassicurante. A rendere ancora più fosco il quadro, la consapevolezza che la nuova produzione del cambio – inizialmente salutata come una boccata d’ossigeno – entrerà a pieno regime solo a fine 2026, con un impiego stimato di circa 300 addetti, numeri comunque insufficienti a compensare i 450 lavoratori del Fire destinati a uscire dalla linea.

Ma il nodo più critico resta quello della Gigafactory, la grande promessa green del sito molisano. Doveva rappresentare il futuro, la transizione ecologica in salsa italiana, con l’avvio della produzione di batterie per auto elettriche a partire dal 2026. Invece, oggi, quel progetto appare arenato, sospeso da quasi un anno, senza certezze né tempi definiti.

«La chiusura del Fire, così come quella del reparto cambi, erano state accettate in funzione di una riconversione ambiziosa, ma oggi quella trasformazione sembra sempre più lontana – denunciano i sindacati –. Le incognite legate alla transizione energetica, gestita in modo approssimativo, stanno mettendo a rischio un intero territorio. Ad oggi, infatti, non esistono piani produttivi concreti per garantire l’operatività dello stabilimento oltre il 2030».

Un allarme che suona ancora più forte alla luce dei nuovi equilibri industriali del gruppo. Proprio in questi giorni Stellantis ha annunciato l’avvio della produzione della Fiat 500 ibrida a Mirafiori dal prossimo novembre, mentre a Torino e Atessa sono previste circa 300 assunzioni. Termoli, invece, sembra rimanere ai margini del grande ridisegno produttivo. E mentre Jean-Philippe Imparato, responsabile Stellantis per l’Europa, preannuncia novità sul Piano Italia per giugno, a Termoli si raccolgono solo i cocci.

A complicare il quadro, la sospensione del cosiddetto “modello agenzia” per i concessionari Stellantis in quasi tutta Europa – a eccezione di Austria, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi – che potrebbe incidere anche sull’intera filiera e sui volumi produttivi.

Nel frattempo, Fim, Uilm, Fismic e Uglm annunciano mobilitazioni a tutela dello stabilimento e dei suoi lavoratori. Sono in programma iniziative pubbliche, assemblee, incontri con le istituzioni e campagne di sensibilizzazione per far sentire la voce del territorio e difendere uno dei capisaldi storici dell’industria automobilistica italiana.

Il timore condiviso è che Termoli venga sacrificata nel grande gioco della transizione, senza alternative valide, senza tutele adeguate. E che un pezzo di storia industriale finisca nel silenzio, nel disinteresse generale, lasciando dietro di sé solo capannoni vuoti e professionalità sprecate.

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