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Infermieri allo stremo: 65 mila in meno, 20 mila in fuga, sanità pubblica al collasso

Un esercito allo stremo tra stipendi indecorosi, aggressioni crescenti e oltre 20 mila dimissioni: la crisi degli infermieri diventa emergenza nazionale

Infermieri allo stremo

Infermieri allo stremo: 65 mila in meno, 20 mila in fuga, sanità pubblica al collasso (foto di repertorio)

Sessantacinquemila: è questo il numero che fotografa lo squilibrio strutturale della sanità pubblica italiana. Tanti sono gli infermieri che mancano all’appello, secondo l’ultimo rapporto della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), redatto insieme alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e presentato nella Giornata Internazionale dell’Infermiere. Un deficit che non è solo aritmetico, ma umano, drammatico, sistemico. E che lascia scoperti reparti chiave come i pronto soccorso, le terapie intensive, le RSA, la pediatria e le cure palliative. Un sistema che tiene in piedi 400 mila professionisti — apprezzati, iperformati, ma stremati — tra turni senza tregua, aggressioni in aumento e buste paga che non sfiorano nemmeno la dignità.

Le regioni più colpite dalla carenza sono Lombardia e Sicilia, ma l’emorragia è ovunque. A compensarla in parte ci sono 43.600 infermieri stranieri, con un aumento del 47% dal 2020, ma i numeri non bastano. Anche perché dall’altra parte l’Italia continua a esportare infermieri giovani e qualificati, attratti da stipendi e condizioni migliori in Svizzera, Germania, Regno Unito.

Il quadro fornito dai dati OCSE è impietoso: l’Italia è tra gli ultimi Paesi per rapporto infermieri/abitanti, con una media nazionale di 4,79 ogni mille persone. Solo alcune regioni del Centro-Nord superano la soglia: Liguria (6,3), Emilia-Romagna (6,2), Friuli-Venezia Giulia (6,1). Il Sud è invece fanalino di coda: Campania, Sicilia e Lombardia ferme a 3,5.

Il problema? Non solo i numeri, ma anche la retribuzione. Le disuguaglianze territoriali gridano vendetta: un infermiere in Trentino-Alto Adige guadagna 37.204 euro lordi l’anno, mentre uno in Molise si ferma a 26.186, in Campania a 27.534, in Calabria a 29.810. A peggiorare il quadro, ci sono oltre 20 mila dimissioni volontarie registrate nei primi 9 mesi del 2024, secondo i dati di Nursing Up. “Poveri, umiliati e stremati”, denuncia il presidente Antonio De Palma. Una fuga che non è solo salariale, ma esistenziale.

I sindacati, da Nursind a Fnopi, accusano il governo di inazione: “Due anni e mezzo di legislatura e ancora nessuna misura concreta”, attacca Andrea Bottega. Intanto la politica litiga sui proclami. Elly Schlein parla di “presa in giro” e chiede di portare la spesa sanitaria al 7,5% del PIL, in linea con la media europea. Giuseppe Conte parla di stipendi indecorosi, burnout, aggressioni e lancia la proposta di un piano straordinario di assunzioni. Il ministro della Salute Orazio Schillaci ammette la gravità della situazione ma invita a “valorizzare il ruolo degli infermieri, anche con percorsi di carriera”.

Ma il tempo stringe. La sanità pubblica rischia di implodere, e con essa il diritto stesso alla salute. Perché senza chi cura, non c’è sistema sanitario che tenga.

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