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11 Maggio 2025 - 10:45
Eravamo rimasti agli insetti impollinatori, quelli per cui l’anno scorso si lasciava crescere l’erba alta “a macchia di leopardo” in nome della biodiversità. Una trovata che ha fatto scuola. Anzi: ha fatto meme. Gli insetti ringraziavano, i cittadini inciampavano. Ma ora c’è di più. C’è l’upgrade. Il salto di qualità. Benvenuti nell’era della fallanza.
Sì, fallanza. Una parola che fino a ieri non conosceva nessuno, nemmeno nei vivai. Ma che oggi, grazie all’incontenibile creatività dell’assessore Alessandro Raso (quello che non "rasa"), è entrata nel vocabolario ufficiale della giustificazione pubblica. Non è una battuta, non è una provocazione, non è neanche un difetto di dizione: è il nuovo pilastro della politica ambientale di Settimo Torinese.
Succede infatti che nel nuovo Parco Berlinguer, uno dei fiori all’occhiello del verde urbano (costato, ricordiamolo, 1,5 milioni di euro di fondi PNRR), gli alberi muoiano a catena – e lo aveva denunciato anche Legambiente, contando quelli morti di sete. Muoiono. Si spezzano. Si piegano. Si afflosciano. E allora lui, serafico, ci spiega: “È la fallanza”. Con tono da documentario di Rai3 e lo sguardo di chi ha appena scoperto la fotosintesi.
Perché, spiega Raso, nelle scienze agronomiche è previsto che alcuni alberi non ce la facciano. È normale. Fa parte della “dinamica del verde”. In sostanza: se un albero muore, è colpa dell’albero. Punto. E la cosa straordinaria è che questo ragionamento vale per tutto. Le piante? Fallanze. I tutori rotti? Fallanze. L’erba alta ovunque? Fallanza del decespugliatore. L’incapacità di rispondere con una soluzione concreta? Fallanza comunicativa.
E mentre lui pontifica (qualcuno gli tolga il cellulare dalle mani) su Facebook di “tronchi esili”, “foglie troppo grandi”e “acqua che pesa”, il parco – che dovrebbe essere un luogo di vita, gioco, incontro – si trasforma in una rassegna funebre di alberelli agonizzanti. Qualcuno è tenuto in piedi con bastoni di fortuna, infilati lì da residenti esasperati che, nel tempo libero, si improvvisano giardinieri. Ma almeno loro qualcosa lo fanno.
Perché il problema non è solo che le piante muoiano. Il problema è come si muore a Settimo Torinese: nel silenzio dell’amministrazione e nell’eloquenza imbarazzante delle sue scuse. Se l’anno scorso l’eroe era l’ape, oggi è la fallanza. Se prima si salvaguardava la natura lasciando l’erba crescere, ora la si omaggia lasciandola marcire. E tutto viene sistematicamente nobilitato con un’etichetta pseudo-scientifica.
Gli alberi piegati al Berlinguer?
“Il loro tronco è molto esile e molto elastico – dice Raso – ed in proporzione le loro foglie sono molto grandi e si riempiono d'acqua. Gli alberelli si sono semplicemente piegati sotto il peso dell'acqua e si è rotto il tutore, che verrà sostituito dall'azienda che si occupa della manutenzione. Ne approfitto anche per dire che l'azienda che cura il raddoppio del Berlinguer non è la stessa che si occupa del verde in città, ma è un'azienda che in modo particolare controllerà per i prossimi quattro anni l'attecchimento delle piante e le sostituirà se necessario. Le confido che nei prossimi anni saranno diverse le piante che moriranno all'interno del parco per i più disparati motivi: si chiamano fallanze, e nelle scienze agronomiche e botaniche sono abbondantemente previste. È uno dei motivi per i quali, nei parchi di nuova formazione, gli alberi – in base alla loro specie – sono piantati più vicini tra loro…”
E dopo una dichiarazione del genere, ad alcuni viene quasi da mettersi a piangere…
E sono due i cittadini che lo “asfaltano”. Letteralmente.
Il primo si chiede dove sia questa benedetta associazione quando gli alberi flettono. Chi sostituisce i sostegni rotti o non più in grado di sostenere il fusto?
"Se il peso del fogliame – asciutto o bagnato che sia – fa piegare gli alberelli, perché non potarli? Lei afferma di frequentare abitualmente il parco, quindi avrà senz’altro notato la fila di alberi lungo il vialetto che corre parallelo a via Raffaello Sanzio. Ebbene, quegli alberelli sono stati puntellati con rami secchi dai cittadini, da anni. Ancora oggi sono lì. Dov’è questa Associazione onnipresente che si prende cura del Parco? Io abito vicino, l’ho visto nascere, lo frequento ogni santo giorno e le garantisco che non ho mai visto – e ripeto MAI – nessun professionista del mestiere prendersene cura. Per non parlare dei sedicenti ed improvvisati giardinieri. Mi perdoni se mi sono dilungato. La ringrazio e le auguro una buona serata..."
E poi c’è l’altro, che rincara la dose:
“Chiamare tutori le canne di bambù infilate alla bell’e meglio mi sembra offensivo per i tutori veri. Quelle sono avanzi da vivaio, bastoncini decorativi buoni solo per far scena. Il vero tutore – dice – deve avere proporzioni precise, deve sostenere davvero l’albero”.
La verità, tutta la verità. Piastra docet: a Settimo, più che sostenere gli alberi, si sostiene la narrativa.
Insomma, mentre il verde urbano cade a pezzi, la città impara a convivere con l’arte dell’arrangiarsi e con un assessore che non taglia, ma insegna. Insegna che la colpa non è mai dell’amministrazione. È della pioggia. Degli alberi. Degli insetti. Della fotosintesi. E se proprio non si sa cosa dire, c’è sempre lei: la fallanza. L’ultima frontiera della politica ambientale. Il colpo di genio che trasforma ogni fallimento in fenomeno previsto o imprevisto, comunque fuori dai radar di un pubblico amministratore.
Settimo Torinese, capitale della biodiversità a parole e della decadenza a foglia larga. Con il suo assessore che non rasa, ma racconta.
E così, ritorniamo alla vera “vergogna nazionale”. Che non sono gli alberi morti. No. Il problema sono i soldi: 1,5 milioni di euro di fondi del PNRR. Soldi pubblici. Soldi dei contribuenti. Ed è anche per questo che l’Italia va a rotoli: per colpa dei troppi assessori “Raso” che han chiesto e preso soldi per progetti che sulla carta avevano un senso, ma nella pratica non ce l’hanno.
Un milione e mezzo per costruire una vera e propria “schifezza” ambientale, che non regala più ossigeno di un campo di gaggie, quegli alberelli tipici piemontesi che crescono da soli, forti e silenziosi. Senza bisogno di progettisti. E soprattutto senza bisogno di un assessore che ci spieghi “perché” muoiono.
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