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09 Maggio 2025 - 18:50
Amazon riscrive la logistica con la nuova frontiera dell’automazione intelligente
Nel frenetici magazzini Amazon, dove ogni secondo vale milioni, è arrivato un nuovo protagonista silenzioso e potentissimo. Si chiama Vulcan, ed è il primo robot “che sente”. Non una trovata da fantascienza, ma un braccio robotico dotato di sensori di forza capaci di replicare la sensibilità di una mano umana. Vulcan può afferrare un bicchiere di vetro o una custodia di plastica fragile senza romperli, regolando in tempo reale la pressione esercitata. E mentre lo fa, lavora fino a 20 ore al giorno e gestisce il 75% dell’inventario di un centro logistico.
Siamo di fronte a un salto evolutivo nell’automazione industriale, che Amazon racconta con entusiasmo: “Vulcan non sostituisce l’uomo, ma lo affianca”, ha dichiarato Aaron Parness, a capo della divisione AI e robotica, durante l’evento Delivering the Future. Ma questa innovazione – come spesso accade – è anche un campanello d’allarme, perché mette in discussione il ruolo stesso del lavoro umano nella catena produttiva.
Diverso dai suoi predecessori – Sparrow, Robin, Cardinal, che usavano ventose o visione artificiale – Vulcan introduce il senso del tatto nei magazzini. Può evitare collisioni, rilevare differenze di peso, e persino capire se un oggetto gli sta sfuggendo. Una tecnologia finora confinata ai laboratori di ricerca, che Amazon ha deciso di implementare su larga scala per ridurre errori, danni e rischi ergonomici.
Un’arma in più, certo, ma anche un nuovo equilibrio da costruire. Perché se da un lato i robot migliorano la sicurezza fisica dei lavoratori, dall’altro rischiano di ridurne il numero. E la crescita esponenziale dei dispositivi nei magazzini Amazon parla chiaro: erano 350.000 nel 2021, oggi sono oltre 750.000.
Amazon insiste sulla narrativa della “collaborazione uomo-macchina”: ha investito 1,2 miliardi di dollari nella formazione dei dipendenti, e solo nel 2024, 20.000 lavoratori europei hanno ricevuto corsi di aggiornamento. Secondo l’azienda, i robot non tolgono posti di lavoro, ma li trasformano, aprendo nuove opportunità nel campo della manutenzione, della programmazione e della supervisione dei sistemi automatici.
Vulcan di Amazon
Eppure, non tutti sono convinti. I sindacati temono che l’aumento dei robot possa eliminare ruoli a bassa qualifica, difficilmente ricollocabili in tempi rapidi. La storia dell’industria insegna che l’innovazione crea nuovi lavori, ma non sempre per chi li perde. Il rischio di ampliare le disuguaglianze è concreto.
Vulcan non è (ancora) il robot che ruba il lavoro, ma è certamente quello che lo ridefinisce. Simbolo di una nuova era in cui la linea tra umano e artificiale si fa più sottile, in cui il lavoro non scompare, ma diventa invisibile, specializzato, distribuito. Una rivoluzione silenziosa che non si vede nelle fabbriche, ma tra gli scaffali di un magazzino.
L’aspetto più inquietante non è nella tecnologia stessa, ma nella mancanza di governance sociale e politica. Chi decide dove impiegare robot come Vulcan? Chi stabilisce quale formazione offrire ai lavoratori, o quali tutele garantire a chi non riesce ad aggiornarsi?
Il caso Vulcan ci ricorda che il futuro del lavoro non è un tema da convegni, ma una questione urgente e concreta. La domanda non è più se la robotica sostituirà l’uomo, ma chi controllerà il cambiamento e in che direzione andrà. Senza una visione collettiva, rischiamo di costruire un sistema in cui l’efficienza vince sulla dignità, e la tecnologia diventa strumento di esclusione anziché di emancipazione.
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