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Cronaca
08 Maggio 2025 - 15:31
Lucarelli condannata per diffamazione su Foti: risarcimento da 80.000 euro
È una sentenza che pesa, quella emessa il 2 maggio 2025 dal tribunale civile di Torino. Una decisione che non solo chiama in causa una delle firme più note del giornalismo italiano, Selvaggia Lucarelli, ma che rimette al centro del dibattito pubblico il ruolo e i limiti della stampa nei casi giudiziari complessi e ad alto impatto mediatico. La giudice Claudia Gemelli ha condannato Lucarelli per diffamazione ai danni dello psicoterapeuta Claudio Foti, disponendo un risarcimento di 65.000 euro, da pagare insieme a Marco Travaglio, Peter Gomez e alla Società Editoriale Il Fatto. A questi si aggiungono 15.000 euro di riparazione pecuniaria a carico esclusivo di Lucarelli, portando il conto a quota 80.000 euro.
Il contesto è noto ma ancora brucia: il caso Bibbiano, una delle vicende giudiziarie più discusse degli ultimi anni, che vide Foti, direttore scientifico della onlus "Hansel e Gretel" di Moncalieri, al centro di un’inchiesta dai risvolti tragici e mediaticamente infuocati. Dopo un lungo percorso processuale, Foti è stato definitivamente assolto. Ma nel frattempo, la sua figura era stata esposta a un’attenzione morbosa, trasformata spesso in bersaglio più che oggetto di cronaca.
Selvaggia deve risarcire
Secondo la sentenza, gli articoli firmati da Lucarelli e pubblicati sul Fatto Quotidiano tra il 2019 e il 2020 sono andati oltre il diritto di cronaca e critica, screditando sistematicamente la figura di Foti. In particolare, la giudice ha evidenziato l’uso di espressioni che miravano a ridicolizzare e delegittimare, come i riferimenti ai suicidi collegati all’inchiesta e la svalutazione della professionalità del terapeuta. Il tono degli articoli è stato ritenuto «volutamente denigratorio» e privo di «necessaria proporzione e contestualizzazione». Parole che oggi aprono una riflessione sull’uso della penna quando il giudizio pubblico precede quello dei tribunali.
L’avvocato di Foti, Luca Bauccio, ha accolto la decisione con soddisfazione: «È un segnale chiaro: la libertà di stampa è sacra, ma non può diventare una licenza per distruggere le persone senza processo. Il diritto di critica è sacrosanto, ma deve sempre rispettare la presunzione d’innocenza». Il caso, aggiunge, rappresenta «un monito per chi trasforma l’informazione in tribunale parallelo».
Il fronte editoriale però non resta a guardare. Gli avvocati di Lucarelli, Travaglio, Gomez e dell’editore hanno già annunciato la volontà di ricorrere in appello, contestando la lettura della sentenza e rivendicando la legittimità del loro operato giornalistico. Una battaglia legale che dunque è tutt’altro che conclusa, e che si preannuncia lunga e carica di implicazioni, non solo giuridiche ma anche etiche e deontologiche.
Intanto, la vicenda getta nuova luce su un nodo cruciale: fin dove può spingersi il giornalismo quando racconta le fasi iniziali di un’indagine? È ancora cronaca, o diventa narrazione tossica? E chi paga quando, anni dopo, l’assoluzione arriva ma la reputazione è già stata demolita? La sentenza di Torino non chiude il caso, ma lancia un segnale: scrivere è un atto di responsabilità, e le parole, anche se digitali, possono ferire più di una condanna penale.
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