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Togliersi la fascia per non sentire la verità: a Gaza è "genocidio". A Lace hanno ucciso la memoria. Di nuovo.

Mentre a Gaza si contano migliaia di morti, in Italia c'è chi si strappa la fascia tricolore pur di non ascoltare parole scomode. Ma censurare la memoria per paura del dissenso non è antifascismo. È il suo contrario.

Togliersi la fascia per non sentire la verità: a Gaza è "genocidio". A Lace hanno ucciso la memoria. Di nuovo.

ISRAELE LI HA UCCISI QUESTA NOTTE A GAZA

Lettera ai sindaci

Luigi Sergio Ricca, Bollengo 
Ernesto Marco, Colleretto
Giulia Claudi, Fiorano
Matteo Chiantore, Ivrea
Ellade Peller, Nomaglio
Roberto Balma, Parella
Domenico Mancuso, Salerano
Sonia Cambursano, Strambino

C’è un momento preciso in cui il ricordo diventa comodità. E quando accade, smette di essere memoria e si trasforma in rito. Un rito che non interroga, non provoca, non scuote. Un rito che consola — ma non cambia nulla. Forse è questo che è accaduto a Lace, dove otto sindaci dell’eporediese hanno deciso di togliersi la fascia tricolore e andarsene prima ancora che il 25 aprile diventasse, come ogni anno dovrebbe essere, una giornata viva, politica, scomoda.

Perché sì: la memoria è scomoda. Deve esserlo. E se una cerimonia partigiana non fa alzare almeno qualche sopracciglio, allora significa che qualcosa è stato addomesticato.

I sindaci se ne sono andati, dicono, perché non condividevano il programma, perché non sapevano chi avrebbe parlato, perché non volevano restare ad ascoltare interventi ritenuti “divisivi”, “violenti” o addirittura “ai limiti dell’antisemitismo”. Parole pesanti, che vanno prese sul serio. Ma parole che – se non supportate da contenuti precisi – rischiano di diventare pretesti per un atto ben più grave: la pretesa di controllare il significato della memoria, di dettarne limiti e paletti, come se la Resistenza fosse un terreno neutro, asettico, senza conflitti, senza analogie con l’oggi.

E invece no. La Resistenza è stata l’azione di donne e uomini che hanno saputo disobbedire. Disobbedire allo Stato, alle regole imposte, alla violenza travestita da ordine. Disobbedire anche al quieto vivere. E chi oggi si ispira alla loro eredità – e lo fa parlando della Palestina, delle guerre, dell’ingiustizia – non tradisce lo spirito della Resistenza. Lo rinnova. Lo porta nel nostro tempo. Lo toglie dalla polvere e dalla cerimonia.

È davvero un paradosso, ed è doloroso dirlo: rifiutare di ascoltare la parola “Palestina” in una commemorazione partigiana significa ridurre l’antifascismo a un’etichetta di comodo. Come se denunciare i massacri, anzi no il genocidio che sta compiendo Israele nella Striscia di Gaza fosse una bestemmia, una mancanza di rispetto, un’invasione indebita. Come se ricordare i morti di oggi offendesse i morti di ieri. Ma non è così. Lo sappiamo, nel profondo.

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In realtà, è proprio nei momenti come questo che si vede chi crede davvero nella libertà e chi la teme. Perché la libertà, quando è vera, disturba. Non fa comodo, non si fa gestire da una scaletta. Non si piega a chi chiede “di cosa parlerete?” prima di decidere se restare o andarsene. È facile dirsi antifascisti con la Costituzione in mano; è più difficile esserlo davvero, quando ti trovi ad ascoltare parole che non condividi. Ma è lì che si gioca la partita: restare e ascoltare. Anche dissentendo. Soprattutto dissentendo.

Negare oggi lo spazio alla parola “Palestina”, rimuovere il massacro in corso, tacere per non urtare, non è solo un segno di debolezza culturale. È un pericoloso gesto di rimozione politica. In altri tempi, si faceva lo stesso con l’Olocausto, per non turbare i tedeschi. O con le foibe, per non turbare gli italiani. Ma la storia non funziona così. La storia vera chiede di essere detta tutta, con tutte le sue contraddizioni e le sue ferite aperte.

gaza

E allora, se oggi qualcuno si indigna perché a Lace si è parlato anche di Gaza, non è un problema di contenuto. È un problema di coraggio. Perché la pace, quella vera, comincia quando si ha il coraggio di nominare le ingiustizie, anche se fanno male, anche se dividono, anche se costringono a prendere posizione.

Se il 25 aprile deve essere soltanto una parata silenziosa, una foto ricordo da mettere sui social, allora davvero i sindaci fanno bene a sfilarsela, quella fascia. Ma se invece vogliamo che sia ancora la festa di chi ha scelto la parte giusta della Storia, allora non possiamo permettere che diventi una cerimonia di consenso.

La libertà – quella vera – non chiede permesso. E chi crede nella democrazia dovrebbe essere il primo ad accettarlo. Anche quando non gli piace quello che sente.

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