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12 Aprile 2025 - 01:18
Damanhur, la città segreta scavata nella montagna per cambiare il destino dell’umanità
Non è facile spiegare Damanhur. Perché Damanhur non è un luogo. Non è una religione, né una setta. Non è una comune hippie né un parco a tema spirituale. Damanhur è una visione collettiva diventata materia. Una provocazione architettonica, filosofica e spirituale lanciata in faccia alla modernità. È un sogno così assurdo, così straordinario, così lucidamente folle… che ha funzionato. E continua a funzionare.
Nasce tutto nel 1975, nel cuore profondo del Canavese, nella Valchiusella che scende da Traversella verso Vidracco, in mezzo a colline apparentemente insignificanti. In quella zona dimenticata da Dio – ma non dagli dèi – Oberto Airaudi, detto Falco, comincia a radunare un piccolo gruppo di persone. Vuole creare una nuova civiltà. Un posto in cui gli esseri umani possano riconnettersi con il loro potenziale divino, con la natura, con la memoria cosmica. No, non si trattava di teorie new age da salotto. Airaudi era un uomo pragmatico, determinato, meticoloso. Aveva lavorato nelle assicurazioni. Sapeva organizzare. E sapeva affascinare.
I suoi seguaci lo seguivano come si segue un maestro spirituale, ma anche un architetto, un poeta, un ingegnere dell’anima. Insieme, cominciarono a costruire un esperimento. Una comunità. Ma il sogno era molto più ambizioso: costruire una città sotterranea. Un complesso di templi scolpiti nella montagna, dove arte, spiritualità, simbolismo e fisica si fondessero in un linguaggio universale. Un tributo all’umanità intera.
I Templi dell’Umanità, come verranno chiamati, non esistevano nei progetti regionali. Non comparivano in nessuna carta urbanistica. Non erano autorizzati da alcun ufficio tecnico. Nessuno ne sapeva nulla. Perché? Perché vennero scavati di nascosto, a mano, di notte, per oltre quindici anni, in un'impresa collettiva che ha dell’incredibile. Un’opera monumentale, visionaria, labirintica. Cinque piani sottoterra, sale affrescate, vetrate policrome, colonne, cupole, passaggi segreti. Nessun architetto ufficiale. Nessuna ruspa. Solo scalpelli, trapani, martelli, secchi. Un’opera d’arte clandestina.
Damanhur era già allora una città invisibile. Un laboratorio sociale e spirituale chiuso al mondo. Chi ci entrava lasciava indietro la propria identità “profana” e riceveva un nome nuovo, tratto dal regno animale e vegetale. C'erano i Falconi Betulla, i Lupi Ginepro, i Daini Salice. Il tempo si misurava secondo un calendario diverso. Si viveva in “nuclei” comunitari, in case condivise. Si praticavano riti, meditazioni, lavori di gruppo. Si credeva nella reincarnazione, nella fisica sottile, nella possibilità di comunicare con le piante, con le forme pensiero, con il cosmo. Si creava arte, ogni giorno, in ogni angolo.
In quegli anni, Damanhur cresce. Fino a diventare una vera micro-società alternativa. Con una Costituzione interna, un parlamento, un governo, un corpo di Guardiani, una moneta locale, i “crediti”, e persino un servizio postale. Una repubblica spirituale nel cuore del Piemonte. Lontana da tutto. Protetta dal ridicolo solo grazie alla serietà assoluta con cui tutto veniva portato avanti.
Nel 1992, però, il sogno viene scoperto. Qualcuno parla. Le autorità intervengono. I templi vengono trovati. Lo Stato italiano si ritrova davanti a un’opera che nessuno sapeva esistesse. Il rischio è che tutto venga abbattuto. Ma non succede. Perché i templi sono troppo belli per essere distrutti. Sono un’opera d’arte, senza dubbio. Un’opera che non si può ignorare, né banalizzare. Da allora, Damanhur cambia. Si apre. Comincia il lungo processo di passaggio da “comunità segreta” a “esperienza spirituale condivisa”.
Arrivano le prime telecamere. I primi articoli. I primi viaggiatori. E Damanhur incanta. I Templi dell’Umanità vengono definiti da molti “l’ottava meraviglia del mondo”. Un labirinto di sale, ognuna con un significato simbolico preciso: la Sala degli Specchi, la Sala della Terra, la Sala delle Sfere, la Sala del Labirinto. In ogni dettaglio – nei mosaici, nei bassorilievi, nei colori – si leggono messaggi spirituali, codici, richiami all’antico Egitto, alla mitologia greca, ai chakra, all’astrologia, alla fisica quantistica.
Chi entra ne esce cambiato. O almeno confuso. Perché qualcosa succede. Non solo per la bellezza dei luoghi, ma per l’energia che si avverte. Falco e i suoi parlavano di “linee sincroniche”, di flussi di energia planetaria che attraversano la Terra e che possono essere usati, canalizzati, manipolati per il bene dell’evoluzione umana.
Nel frattempo, Damanhur diventa oggetto di studio. Università americane, giornalisti europei, documentaristi giapponesi, sciamani messicani, monaci tibetani: tutti passano da qui. Alcuni per criticare, altri per capire. Altri ancora per restare. La comunità si allarga. A metà degli anni 2000, si contano più di mille aderenti in tutto il mondo. Cittadini damanhuriani in Svizzera, in California, in Germania. Una rete globale.
Poi, nel 2013, la morte di Falco cambia tutto. Il fondatore se ne va. E con lui, una parte del mito. La comunità si divide. Alcuni se ne vanno, altri restano. Alcuni denunciano un sistema troppo rigido. Altri parlano di rinascita. I templi restano, come testimoni silenziosi di qualcosa che è stato molto più di un esperimento.
Oggi Damanhur è diversa. Più aperta. Meno chiusa. Meno mitica, ma ancora viva. I templi si visitano. Si organizzano seminari, ritiri, percorsi spirituali. Si parla di educazione olistica, di transizione ecologica, di spiritualità applicata alla vita quotidiana. La musica delle piante – un sistema che converte gli impulsi bioelettrici delle foglie in suoni – continua a incantare i turisti. I damanhuriani parlano ancora con le piante. E dicono che le piante, talvolta, rispondono.
C’è chi dice che tutto questo sia stato un gigantesco teatro. Una setta vestita da comune. Una fuga dalla realtà. Ma c’è anche chi, visitando quei luoghi, sente davvero qualcosa. Una vibrazione diversa. Una possibilità.
Damanhur è tutto questo. E molto di più. È un esperimento vivo. È una domanda ancora aperta. È la prova che l’immaginazione, se usata con metodo, può generare mondi. Che si può costruire un tempio nella roccia partendo da un’idea. Che si può vivere diversamente. Che l’utopia non è solo una parola, ma un’azione.
E che da qualche parte, in Piemonte, nascosta tra i boschi, una civiltà invisibile continua a respirare.
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