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07 Aprile 2025 - 18:03
A Chivasso va in scena il teatro dell'assurdo, tra cittadinanze onorarie e coincidenze culturali...
Toh, che combinazione. Un giorno il Comune di Chivasso – su proposta dell’assessore alla Cultura Gianluca Vitale – decide di conferire la cittadinanza onoraria a due giganti del teatro internazionale, Eugenio Barba e Julia Varley, noti per aver fondato l’Odin Teatret e la Fondazione Barba Varley. E pochi mesi dopo, sorpresa: l’Officina Culturale, associazione teatrale di cui lo stesso Vitale è fondatore e riferimento (nonché, diciamolo, motore sottotraccia ma neanche tanto), viene accolta proprio nella prestigiosa fondazione Barba Varley. Un onore, certo. Ma anche una coincidenza talmente perfetta da sembrare scritta da uno sceneggiatore un po’ pigro.
Il post con cui l'Officina Culturale dà la notizia su facebook
Naturalmente, non c’è nulla di illecito. Nulla che porti in tribunale o anche solo a una reprimenda formale. Ma ci chiediamo – con voi cittadini – se sia davvero normale. È normale che un assessore utilizzi la propria funzione per assegnare un riconoscimento solenne a due artisti che, guarda caso, rappresentano anche una potenziale porta d’accesso a un’importante vetrina internazionale per l’associazione a cui lui è legato? È normale che pochi mesi dopo la cerimonia, la stessa associazione venga annunciata come new entry nella fondazione appena celebrata?
Noi non abbiamo certezze. Non facciamo processi. Ma ci poniamo qualche domanda. È etico? È opportuno? È ciò che ci si aspetta da un amministratore pubblico che – non dimentichiamolo – aspira neanche troppo velatamente alla poltrona di sindaco?
E poi c’è la coreografia di contorno, quella che aggiunge colore al quadro. La presidente dell’Officina, Maria Paola Cena, ha appena annunciato la sua adesione al Movimento 5 Stelle, dichiarando contestualmente tutto il suo appoggio all’assessore Vitale. Nulla di male, anche qui. Ma non è curioso come certi legami culturali si intreccino perfettamente con le ambizioni politiche? Come se la cultura, quella che dovrebbe essere bene comune, diventasse pedina in una partita privata.
Nel frattempo, a Chivasso ci raccontano che il teatro è spazio di trasformazione e crescita collettiva. Ci mancherebbe. Ma forse sarebbe più corretto aggiungere: a condizione che la crescita collettiva non coincida sempre con la crescita personale di qualcuno.
No, non è uno scandalo. Non è un’inchiesta. È una questione di stile. E di opportunità. Ma in politica – quella vera – lo stile è sostanza. E le coincidenze, quando si sommano, diventano indizi. Almeno per chi ha voglia di guardarli.
Chivasso, insomma, non è Copenhagen. Ma un certo teatro dell’assurdo qui si rappresenta benissimo. Solo che, a differenza di Barba e Varley, da noi il confine tra arte e politica rischia di diventare una passerella. E sulla passerella, si sa, c’è sempre qualcuno che prova a sfilare per primo.
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