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07 Aprile 2025 - 12:34
In foto una centrale idroelettrica
A Chialamberto l’allarme non suona. Rimbomba. E rimbomba forte, tra i monti, i boschi e le praterie della Val Grande, dove da secoli l’acqua detta il ritmo della vita.
Ora qualcuno vuole incanalarla, prelevarla, trasformarla in megawatt e profitto. Ma a quale costo? È la domanda che da mesi – e oggi con una raccolta firme ufficiale – si pone Mario Gagliardi, falegname della valle, che nel legno ha scolpito una vita intera, e in quella valle ci vive, ci lavora e ci crede. Secondo lui, se tolgono anche lo Stura, allora è davvero finita. E con lui parlano decine di cittadini, artigiani, allevatori, escursionisti, affezionati alla bellezza rude e fragile di un territorio che chiede solo una cosa: non essere svenduto.
Mario Gagliardi non è un ambientalista da salotto. Non ha uffici stampa né sponsor politici. Ha una bottega a Chialamberto, pialla e scalpello. Ma quando ha saputo che Balma S.r.l. – già nota come Brixia Energia – intende realizzare un impianto idroelettrico sul torrente Stura di Val Grande, ha capito che non poteva restare in silenzio. Così ha scritto, ha raccolto voci, ha letto carte, ha ripreso una petizione del 2012, l’ha integrata e rilanciata. Quella raccolta firme presto arriverà nelle mani delle istituzioni: Comune, Città Metropolitana, Regione Piemonte.
La proposta è tecnica e ambiziosa: captare acqua dallo Stura in zona “ponte di Pratolungo”, farla passare in una condotta sotterranea di 120 centimetri di diametro, per poi sfruttarne l’energia a valle. Ma l’acqua, in montagna, ha una memoria lunga. E a Chialamberto se la ricordano bene l’alluvione del 1993 e quella del 2000: frane, strade crollate, case evacuate, ponti danneggiati. Il punto dove l’opera dovrebbe nascere è ad alto rischio idraulico, come già segnalato nei piani urbanistici. La paura è che, invece di produrre energia, si alimenti un nuovo disastro.
Non è solo questione di sicurezza. Il prelievo d’acqua previsto rischia di ridurre drasticamente la portata dello Stura, specialmente in un’epoca in cui i ghiacciai si ritirano e le sorgenti si affievoliscono. Lo Stura è molto più di un corso d’acqua: è ecosistema, refrigerio, paesaggio, sport. È rafting e pesca, camminate e silenzi. È bellezza condivisa. E svuotarlo significa impoverire un intero sistema, non solo ecologico, ma anche economico.
La condotta, per essere posata, richiederà scavi profondi e impattanti in una prateria valliva utilizzata per il foraggio. Non si tratta solo di erba e terra, ma del sostentamento di chi alleva, produce, lavora. E la centrale di produzione, prevista in via Gabbi, andrebbe a impattare direttamente su aree destinate all’artigianato e al commercio. È il cuore pulsante del paese: se lo colpisci, il paese si svuota. Letteralmente.
La Stura in Val Grande
Il paradosso del “percorso natura”
Fa riflettere, poi, che l’area prescelta per la centrale sia vicina al “percorso natura”, recentemente recuperato con fondi pubblici per rilanciare il turismo e la fruibilità del territorio. Un investimento collettivo che rischia di essere vanificato da un’opera industriale invasiva, che nulla ha a che vedere con il rispetto della montagna.
Chi vive a Chialamberto non chiede di tornare alla clava. Ma neppure può accettare decisioni calate dall’alto, in nome di una transizione ecologica che, paradossalmente, passa per il saccheggio delle risorse naturali locali. Secondo quanto si legge nella petizione, l’energia pulita non può nascere da una violenza ambientale. È questo il nodo: si può parlare di sostenibilità quando si mette a rischio un intero equilibrio?
Chialamberto ha lottato contro lo spopolamento, ha difeso i servizi, ha mantenuto vive le sue attività. L’intervento proposto sembra andare nella direzione opposta: togliere acqua, spazio, prospettiva. Gagliardi teme che alla fine, di quel mondo, non resti più nulla, tranne il rumore delle ruspe e il silenzio della valle svuotata.
La petizione non è un no a tutto. È un sì alla valutazione, alla trasparenza, al rispetto. Chiede alle autorità competenti di interrompere l’iter o quanto meno sospenderlo per una valutazione più seria e partecipata. Chiede di ascoltare chi il territorio lo vive e non chi lo consulta da remoto. Chiede, soprattutto, che non si commettano gli stessi errori del passato.
Chi firma oggi la petizione lanciata da Mario Gagliardi non difende solo un tratto di torrente. Difende un modello di vita, di economia, di legame tra uomo e natura. E difende l’idea che la montagna non è un luogo da sfruttare, ma da custodire. Con rispetto, con amore, con quella lungimiranza che sembra mancare proprio a chi dovrebbe tutelare il futuro.
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