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Cronaca
06 Aprile 2025 - 16:22
Alberto Galardi
Se ne va in silenzio, alla soglia dei 95 anni, Alberto Galardi, architetto visionario, maestro del calcestruzzo che respira, testimone di un’epoca in cui l’architettura era ancora capace di sognare e di cambiare il mondo. Lo ha annunciato la Fondazione Adriano Olivetti, come a voler siglare un legame che non si è mai spezzato, neanche con il tempo. Un legame che affonda le radici nella stagione più fertile della cultura imprenditoriale italiana, quella ispirata proprio da Adriano Olivetti, l’uomo che vide nella fabbrica un laboratorio di civiltà.
Galardi nasce a Chiavari l’11 ottobre del 1930 e cresce con il profumo del mare ligure e l’idea che lo spazio non sia solo contenitore, ma contenuto. Dopo gli studi a Firenze, entra giovanissimo nell’élite dell’architettura italiana, diventando assistente prima di Piero Portaluppi e poi di Vittorio Gandolfi al Politecnico di Milano. Nel 1969 sarà lui a diventare professore ordinario: l’architettura come pensiero prima ancora che come mestiere.
Ma è l’incontro con Adriano Olivetti che lo consacra. È il 1959 quando riceve l’incarico per progettare il Laboratorio farmaceutico e l’Istituto di ricerche Antoine Marxer a Loranzè, in provincia di Torino. Un’opera brutalista, audace e al tempo stesso poetica, premiata con il Premio Inarch e oggi considerata una delle perle nascoste del patrimonio architettonico industriale italiano. Un’architettura "appesa", che sembra sfidare la gravità e la rassegnazione, come a dire che un altro modo di costruire – e di vivere – è possibile.
La Camera di Commercio di Torino
A Galardi, Olivetti affida anche il disegno di un quartiere per profughi a Gorizia, lo nomina consulente per l’architettura dell’azienda, lo coinvolge nei progetti più ambiziosi della Comunità. E lui risponde con intelligenza, rigore e un’etica del costruire rara in qualsiasi epoca. Lavora con i migliori: Leonida Cerruti, Carlo Moretti, Carlo Mollino, Carlo Graffi. Con loro firma, tra le altre cose, il Palazzo della Camera di Commercio di Torino (1963), dove ancora oggi il calcestruzzo parla una lingua asciutta e potente.
Ma Galardi non si ferma qui. Sogna anche lontano. Disegna un insediamento urbano per 5.000 abitanti in Kuwait e addirittura una moschea per 10.000 fedeli a Kuwait City. Per Roma immagina un nuovo palazzo per gli uffici della Camera dei deputati, mentre in Liguria progetta il viadotto dell’autostrada sul fiume Entella. A Firenze, nel 1970, firma il palazzo Olivetti di via Santa Caterina d’Alessandria, forse il suo lavoro più noto, icona di quella tensione sospesa tra funzionalità e bellezza.
Non tutto si realizza. Alcuni progetti restano solo sulla carta: una scuola per meccanici a Scarmagno, una colonia estiva per 800 bambini vicino a Ravenna. Ma anche questo fa parte della sua eredità: la consapevolezza che non tutte le utopie riescono a diventare muri, ma tutte lasciano tracce.
Galardi non fu solo progettista, ma anche autore e intellettuale. Con il volume “Architettura italiana contemporanea”(1967), edito da Edizioni di Comunità, contribuì a raccontare una generazione di architetti che credeva nella cultura come forza trasformatrice, dentro e fuori le aule universitarie, dentro e fuori i cantieri.
Nella vita privata, Galardi era sposato con l’architetta Maria Luisa Lizier, figlia di Carlo Lizier e Laura Olivetti, sorella di Adriano. Un matrimonio che univa ancora di più biografia e storia, architettura e visione. Insieme hanno cresciuto quattro figli: Marco, Laura, Valentina e Annalisa.
Oggi, chi percorre certi corridoi, chi alza lo sguardo su certi volumi appesi nel vuoto, chi tocca il cemento grezzo con rispetto, forse senza saperlo, passa accanto a un pezzo del sogno di Alberto Galardi. Un uomo che ha fatto dell’architettura una forma di pensiero, e della materia un gesto di libertà.
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