Mercoledi 5 aprile 1944, mattina. All’alba. Torino.
8 uomini vengono prelevati dal carcere de "Le Nuove" dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Li portano in corso Svizzera, all’angolo con corso Appio Claudio, dove si trova il campo di tiro del Martinetto. Un posto che, a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943, con l’avvento della Repubblica Sociale Italiana (lo stato-fantoccio collaborazionista con i nazisti) diventa luogo di fucilazioni, soprattutto di dissidenti politici.
Quegli uomini, infatti, sono tutti oppositori del regime. Si chiamano
Errico Giachino e
Quinto Bevilacqua, socialisti;
Giulio Biglieri e
Paolo Braccini (primo comandante delle Brigate Giustizia e Libertà) del Partito d’Azione;
Eusebio Giambone, operaio comunista e tre ufficiali dell’esercito, il capitano
Franco Balbis, il tenente
Massimo Montano e il generale di brigata
Giuseppe Perotti.
Sono stati tutti catturati nel mese di marzo dello stesso anno con l’accusa particolarmente grave, pendente su alcuni di essi, di essere organici al Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Piemontese, di cui, in effetti, fanno parte Perotti, Giambone, Braccini e Balbis.
Insieme a questi vengono arrestati i tenenti colonnello Giuseppe Giraudo e Gustavo Leporati, il tenente di complemento Silvio Geuna, l’avvocato DC Valdo Fusi, il socialista Pietro Carlando e il liberale Brosio (tutti del CLNRP) e un’altra quarantina di cittadini di presunte simpatie antifasciste.
Il processo-farsa, per volere di Mussolini in persona rapidissimo ed esemplare, dura appena due giorni, il 2 e il 3 aprile. Il verdetto è terrificante: condanna a morte per Balbis, Bevilacqua, Biglieri, Braccini, Giachino, Giambone, Montano e Perotti. Ergastolo per Carlando, Geuna, Giraudo e Leporati, due anni di carcere a Brosio e assoluzione per insufficienza di prove per Fusi.
Mercoledi 5 aprile 1944, mattina. All’alba.
Gli otto condannati a morte vengono legati a delle sedie di legno, di spalle al plotone d’esecuzione. Di fianco un sacerdote ne constata “la grande dignità” mentre viene letta la sentenza. Arriva l’ordine, le ultime urla disperate e poi la pioggia di piombo dai fucili.
Oggi, in quello che adesso si chiama il Sacrario del Martinetto, di quel teatro di morte rimane poco. Divenuto monumento nazionale a partire dal 1945, è stato adornato da una lapide che ricorda i partigiani uccisi (in totale 61 in 20 mesi) svelata l’8 luglio dello stesso anno e da un cippo dedicato ai “martiri della resistenza piemontese, la cui morte salvò la vita e l’onore d’Italia”.
Negli anni successivi gran parte della struttura è stata abbattuta, fino al 1967 in cui si è deciso di mantenere il solo recinto delle esecuzioni, circondato da un piccolo giardino. Al suo interno è ancora presente il muro con i buchi dei proiettili e, in una teca, sono conservati i resti di alcune delle sedie usate durante le fucilazioni.