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Ombre su Torino
30 Marzo 2025 - 23:01
Un mostro.
Anche perché, diversamente, è difficile definirlo.
Arriva alla redazione de La Stampa nel pomeriggio di sabato 14 giugno 1975 e chiede del caporedattore della cronaca. È un signore di 35 anni, molto nervoso e che va avanti e indietro per i corridoi, balbetta frasi incomprensibili, fissando con occhi spiritati chiunque, in quell’assolato e noioso giorno di fine primavera, si trovi, suo malgrado, a lavorare lì.
Quando lo fanno accomodare, racconta di avere una notizia sensazionale e che ne avrebbe svelato i dettagli solo in cambio di una grossa somma di denaro. Suggerisce anche il titolo avrebbe dovuto avere che il pezzo da scrivere: “Un tutore uccide le figlie per vederci chiaro”.
Dopo una breve trattativa, l’uomo rinuncia all’eventuale compenso ipotizzato e inizia una narrazione che comincia da lontano. Dichiara di chiamarsi Alfio Catania e di essere un piastrellista che da sei anni convive con la sua compagna nella vecchia cascina Nobel della frazione Spina di Pralormo, circa 35 km a sud di Torino.
La donna, la trentatreenne Maria Lombiatti, si è separata dall’ex marito tre anni prima, mantenendone tuttavia, in attesa del divorzio, il cognome, Curti. Con quest’ultimo, proprio per tale motivo, vengono registrate le tre figlie frutto del rapporto tra Alfio e Maria: le gemelle Ombretta e Katia, nate nel 1973, e Nunzia di appena 6 mesi.
Il tutore di cui andava farneticando, quindi, sarebbe proprio lui anche se, in realtà, le piccole sono a tutti gli effetti sua legittima prole. Davanti ai visi scioccati dei cronisti presenti, Catania rivela che la sera prima, intorno alle 19, si trovava da solo in casa con le gemelle poiché la compagna si era attardata in ufficio. Stanno tutti insieme sul letto matrimoniale che scherzano e giocano ma, all’improvviso, con fredda determinazione, l’uomo afferra un flacone pieno di pillole e inizia a somministrarle alle due creature.
Queste, ovviamente ignare di cosa stia accadendo ed eccitate dai tanti colori accesi delle pillole, iniziano a trangugiarle pensando si tratti di caramelle, chiedendo al padre di dargliene altre e altre ancora, proprio come fanno le bambine di quell’età. Quelle però non sono dolciumi ma compresse di Disipal, una sostanza che i medici prescrivono a chi è costretto a prendere tranquillanti per combatterne gli effetti collaterali: Ombretta ne inghiottisce 15, Katia 4.
Passa una mezzora e le fanciulle iniziano a sentirsi male. Hanno dei dolori lancinanti allo stomaco, respirano a fatica e, in particolare, Ombretta ha il viso che ha iniziato a colorarsi preoccupantemente di blu.
A questo punto, vinto dal rimorso, Catania prende entrambe le figlie e, di corsa, le accompagna al più vicino ospedale (quello di Carmagnola) dal quale, però, vista la situazione disperata, vengono trasportate al Regina Margherita di Torino. Qui Katia finisce in coma ma si salva mentre per Ombretta non c’è nulla da fare. Muore a neanche tre anni, uccisa da un quantitativo fatale di un medicinale che, probabilmente, non avrebbe dovuto prendere neanche nel corso di tutta la sua vita.
È a questo punto del racconto che, a La Stampa, tirato su il telefono, ricevono conferma della storia dall’ospedale e, contemporaneamente, chiamano la polizia per far prelevare il reo confesso, il mostro.
Questi, appena giunto negli uffici della questura a Torino, esordisce così: “Mettetemi dentro, altrimenti uccido anche le altre”.
Interrogato dagli inquirenti, si scopre che Alfio Catania è un uomo dalla tenuta psicologica quantomeno traballante. Ricoverato più volte in diverse cliniche psichiatriche, è stato assunto da un impresario edile di Pralormo anche se, a causa di diverse crisi, è rimasto lontano dai cantieri a lungo, venendo riconosciuto invalido e ricevendo per questo una pensione.
Viene definito un depresso cronico con, in particolare, turbe legate alla religione: a volte crede di essere la reincarnazione di Gesù Cristo, a volte “solo” un santo. Viene rinchiuso e dimesso quasi sempre dopo pochi giorni perché, ogni volta, viene ritenuto “non pericoloso a sé o agli altri” venendo bombardato di psicofarmaci di cui, da anni, ha letteralmente un armadietto pieno in bagno.
Chiestigli numi sul movente, Catania riferisce che l’avrebbe fatto per vendicarsi della fidanzata, perché Maria lo tradisce, perché i figli non sono suoi. D’altra parte, hanno il cognome dell’ex marito, lui è solo il tutore: le ama ma le respinge perché non sono completamente “sue”.
Interpellato da La Stampa, il professor Ugo Fornari (luminare della psichiatria che, nel tempo, perizierà, tra gli altri, anche i “Compagni di Merende” Pacciani e Lotti, Anna Maria Franzoni e serial killer del calibro di Donato Bilancia e Giancarlo Stevanin) l’omicidio avrebbe radici nel suo background: “Essere padre in un individuo sottoculturale, primitivo, come sarebbe il Catania, significa possedere il figlio. Ma luì, essendone il tutore, sente di non possederle completamente. Nella sua cultura, l'aspetto possessivo è svalutato dal fatto che le gemelle non portano il suo nome”.
Oltre a questo, aggiunge Fornari “Il depresso endogeno ama il proprio figlio, ma teme continuamente che possa accadergli qualcosa, che il futuro gli riservi dolore e pericoli. L’ omicidio, nella mente dello psicotico endogeno depressivo, è anche tutela, un atto d'amore. Un amore abnorme, ma sempre amore”.
Il problema è che le indagini portano a conclusioni totalmente diverse.
Intanto si viene a sapere che Catania, quel 13 giugno, ha lavorato fino a tardi in cantiere, oltre le 19. Una volta tornato a casa, dove è la Lombiatti è insieme alle tre figlie, la stessa gli riferisce che, in un momento di distrazione, le gemelle hanno aperto il comodino dell’uomo e, al suo interno, hanno trovato la scatola del Disipal che mai avrebbe dovuto essere lì.
Le bambine iniziano a giocarci e poi, pensando che fossero caramelle, iniziano a mangiarsele una dietro l’altra. Passa qualche minuto e le due si sentono male. I vicini di casa, ma anche la compagna, testimoniano che Alfio è disperato, non sa che fare ed esce per strada urlando nella piazza principale del paese.
Qui le sue grida vengono intercettate da Giuseppe Peracchi, il titolare del distributore Agip di Pralormo.
“Erano da poco passate le 20. Avevo appena chiuso il mio distributore e stavamo per sederci a tavola quando ho sentito delle urla ventre dalla piazza. Era Catania, disperato, tra le braccia le bimbe ormai bluastre in viso. Dopo aver telefonato alla Croce Rossa di Carmagnola si erano precipitati nella piazza per venire incontro alla ambulanza poiché, abitando in una cascina isolata, credevano che l'autista non li avrebbe trovati. Mi sono offerto io di portarli con la mia Flavia — ricorda l'uomo — almeno sulla strada per Carmagnola, incontro ai soccorsi. Li abbiamo visti infatti, ma non si sono fermati perché andavano a tutta velocità”.
Il teste aggiunge: “In macchina il più disperato sembrava proprio lui, il padre. Lo conosco da tempo, so che voleva molto bene alle figlie. Quando la fidanzata ha detto che le due bambine avevano inghiottito le sue compresse, l'uomo l'ha rimproverata aspramente, accusandola di non averle tolte dalla circolazione, come le aveva detto altre volte”.
A questa si aggiunge la testimonianza di Don Allanda, il parroco di Orbassano (dove Catania abitava fino all’anno prima) a cui, prima di recarsi alla redazione de La Stampa lo stesso “confessa” l’omicidio: “L’ho uccisa. Ma dovevo morire io”. La quintessenza di un enorme senso di colpa che corrode una mente squilibrata.
Il 4 luglio 1975, a 15 giorni dalla tragedia, cade ogni accusa a carico di Alfio Catania. Il piastrellista viene scarcerato per assoluta mancanza di indizi.
È stata una disgrazia. Che, possiamo immaginare, abbia accompagnato quest’uomo fragile da lì alla fine dei suoi giorni.
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