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L'Unione fa la forza
15 Marzo 2025 - 15:19
Da welfare a warfare; da green deal alla war industry: l'Europa alla ricerca di nuovi equilibri macroeconomici.
E se il "ReArm Europe" della Ursula von der Leyen avvesse come obiettivo riconversione industriale da green a war?
Ovvio tutto a "debito pubblico", sdoganato per necessità dai tedeschi, che hanno esigenza di rimettere in moto la industria manifatturiera.
In particolare di salvare l'automotive tedesca che rischia di trascinare in basso tutto il resto in Italia come in Europa?
Siamo davvero "malpensanti" (forse) ma il riarmo per i 27 Stati membri e l'apertura di Merz sul incremento del debito pubblico offrono più di un gancio per attivare le "malelingue"!
Cruciale, nel discorso di von der Leyen, è stato proprio il passaggio che lega il riarmo all’economia europea.
«È importante sottolineare che la forza economica e il piano europeo di riarmo sono due facce della stessa medaglia – ha detto la presidente della Commissione – Il potenziale economico e innovativo dell’Europa è una risorsa per la sua sicurezza, ma al contempo, gli sforzi europei per la difesa possono fornire una spinta enorme a un mercato unico più competitivo nel medio e lungo termine.
Questo al netto di Trump che sostiene che la Ue lo vuole fregare e di Starmer che attende i carrarmati di Putin a Londra e Parigi. Ma ciò è parte della narrazione e della propaganda.
C’è qualcosa di terribile nel vedere un’auto che diventa un carro armato. Non parlo della solita metafora legata al fatto che le auto ibride oggi pesano sempre di più, ma della realtà nuda e cruda che si sta disegnando a Osnabrück, dove Rheinmetall, colosso tedesco delle armi, sta pensando di rilevare da Wolkswagen uno stabilimento dove si producono le Golf e che è destinato alla chiusura.
Uno dei tre che la Wolkswagen, alle prese con i suoi affanni, ha deciso di sacrificare sull’altare della crisi.
Rheinmetall, però, non è lì per fare beneficenza: l’acquisto, dice, dipenderà dagli ordini di carri armati.
E gli ordini stanno fioccando da quando la guerra in Ucraina ha ricordato al mondo che la pace, purtroppo, non è mai un affare garantito.
Ma c’è dell’altro: in questo valzer di fabbriche che cambiano padrone e di scopi che si ribaltano, c’è un retrogusto amarissimo.
Osnabrück non è solo un punto sulla mappa industriale della Germania: è un luogo dove mani operaie hanno assemblato pezzi di lamiera per decenni, dando forma a un’idea di progresso che oggi sembra sbiadita. Quegli operai potrebbero presto trovarsi a montare cingolati al posto di cerchioni.
Una metamorfosi esistenziale: l’auto, oggetto di libertà individuale, cede il passo al carro, strumento di una collettività che si sente minacciata.
È il passaggio da un sogno a un incubo, o forse solo da un’illusione a una necessità.
La domanda sorge spontanea: cosa resta di quel patto tacito che l’Europa aveva stretto con se stessa dopo il 1945, ovvero: ricostruzione, benessere, autostrade piene di utilitarie invece che di convogli militari?
Era solo un’interruzione momentanea dentro il rumore di fondo della storia? O forse siamo noi che, colpevolmente distratti, abbiamo lasciato che la Golf si trasformasse in un carro armato senza nemmeno accorgercene?
Quante domande, troppe domande forse. Ma è bene porsele con il beneficio del dubbio giusto.
C’è però una domanda in particolare che dobbiamo porci pur rimanendo contrari al Riarmo e alla politica guerrafondaia dell’attuale Unione europea spinta oltre tutto da un Paese la gran Bretagna che dell’Unione Europea non fa neanche parte.
La domanda è: Ma sono davvero convinti quei Parlamentari europei che nella migliore delle ipotesi si sono astenuti se non addirittura hanno votato a favore di tale follia che Più armi, significanio più guadagni per tutti
I ricavi dell’industria italiana in campo strettamente militare rappresentano, secondo i dati forniti dall’AIAD – la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza di Confindustria – solo lo 0,5% del PIL del nostro paese». Molto, molto meno del costruire automobili, ad esempio, con l’industria ‘dell’Automotive’ al 5,2% del PIL, secondo l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica di Confindustria.
lndustria bellica più posti di lavoro QUINDI?
Il boom di spese in armamenti. Dal 2013 al 2022 c’è stata una crescita del 132% delle spese di investimento per armamenti, ma il numero degli occupati diretti nell’industria bellica è rimasto pressoché costante intorno ai 30 mila addetti, lo 0,8% dell’occupazione nell’industria manifatturiera in Italia. Peggio del dato generale, l’andamento dell’occupazione nel comparto aeronautico (velivoli e aerostrutture) della Leonardo S.p.A che, nonostante l’enfasi sui posti di lavoro legati alla produzione del costosissimo Jet multi-ruolo F-35, dal 2007 al 2022, ci ha regalato un saldo negativo del 17% (da 13.301 a 11.093 occupati).
L’unica industria tecnologicamente avanzata?
Tra i settori industriali più innovativi in Italia troviamo, oltre le attività civili del comparto aerospaziale, la microelettronica, la robotica e l’automazione industriale, la produzione di macchinari, la produzione di auto e altri mezzi di trasporto – navi, treni, metro – l’informatica e le telecomunicazioni, la biotecnologia, la farmaceutica, l’alimentare, le energie rinnovabili e molte altre (Greenpeace, “Arming Europe – Military expenditures and their economic impact in Germany, Italy, and Spain”, novembre 2023).
Niente armi dove c’è guerra e dittature?
Secondo i dati del SIPRI, dal 2019 al 2023 l’export di armamenti dell’industria bellica italiana non solo è cresciuto dell’86% rispetto ai 5 anni precedenti, ma in violazione della Legge 185/90, in prevalenza è diretto a paesi in guerra e/o a paesi autocratici, che calpestano i diritti umani e le libertà fondamentali come Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Israele, Kuwait, Marocco e Qatar.
Conversione da produzione militare a civile o viceversa?
Nel secondo dopoguerra i governi italiani finanziarono programmi di conversione dalla produzione militare a quella civile nell’industria a partecipazione statale. All’inizio anni ’90, fine della ‘Guerra Fredda’, fu l’Unione Europea a farlo attraverso il programma comunitario ‘Konver’ e l’utilizzo dei Fondi Strutturali Europei. Viceversa (dal civile al militare), solo scelte d’indirizzo di politica industriale delle due aziende a controllo pubblico (Leonardo S.p.A e Fincantieri), le quali concentrano circa l’80% del fatturato dell’industria militare in Italia.
Leonardo S.p.A (ex Finmeccanica), tutto militare?
La Finmeccanica (ora Leonardo S.p.A) nel 1995 era un gruppo industriale il cui fatturato per il 72% proveniva da attività civili e solo il 28% dal militare. Nel 2023 queste quote si sono rovesciate: solo il 25% nel civile e il 75% nel militare. Il processo di dismissioni in campo civile, iniziato nel 1994 con la vendita di EsaOte Biomedica, si è intensificato a partire dal 1998 con la cessione ad ABB di Elsag Bailey Process Automation (leader mondiale nell’automazione industriale) e con la vendita delle aziende controllate nella robotica e automazione di fabbrica, della quota di controllo della ST Microelettronics e degli asset sull’energia eolica. Per poi proseguire con le dismissioni di Ansaldo Energia (2013), Ansaldo Breda, Ansaldo Sts, Breda-Menarini bus (2014) ed Electron Italia (2017).
Gli azionisti della Leonardo S.p.A tutti italiani?
Il principale azionista è il Ministero dell’Economia e Finanze (30,2%), con una ‘golden share’ (la possibilità di controllo governativo della maggioranza azionaria) data l’importanza strategica della società, ma un ruolo sempre più decisivo nella sua gestione lo giocano i Fondi istituzionali, che per il 53% sono nord-americani. Dimensional Fund Advisors LP, The Vanguard Group, Norges Bank Investment, T. Rowe Price International Ltd Management, Goldman Sachs Asset Management, BlackRock Fund Advisors e DNCA Finance SA. Leonardo S.p.A è quotata alla Borsa Italiana e, attraverso la società controllata Leonardo DRS, è presente anche sui listini statunitense NASDAQ e israeliano TASE.
Tecnologie ad uso militare utili nel settore civile?
La tecnologia stealth che rende ‘invisibili’ ai radar gli aerei F-35 militari non può servire agli aerei commerciali che invece devono essere ben rilevati, monitorati e guidati dalle torri di controllo. I radar invece nella maggior parte dei casi rientrano nel ‘dual use’ (doppio uso), cioè usufruibili in campo sia civile sia militare. Per certi versi simile, è il caso dei droni che possono essere addirittura da attacco oppure da monitoraggio ambientale, ovviamente con specifiche tecnologiche ben differenti.
Industria bellica, contributi dallo Stato o dall’UE?
L’Unione Europea sta destinando già da anni rilevanti fondi alle industrie belliche. Nel 2024 circa il 2% del bilancio è stato destinato a scopi militari, cioè 2,32 miliardi. Gli occupati diretti sono 491.000 (2022), su un totale di 925.000 occupati nell’ aerospazio e difesa. Inoltre l’industria bellica è sostenuta attraverso il Programma Europeo per l’Industria della Difesa (EDIP), da 1,5 miliardi di euro fino al 2027 e l’EDF da quasi 8 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Questi finanziamenti vanno per lo più a 4 Stati (Francia, Spagna, Italia e Germania) e a 5 maggiori aziende (Airbus, Leonardo S.p.A, Thales, Dassault Aviation e Rheinmetall). Leonardo S.p.A, con oltre il 70% delle produzioni militari italiane e prima beneficiaria dei fondi di ricerca e di sviluppo militare messi a disposizione dall’Unione, è partecipata dal ministero dell’Economia e Finanze (30,2%) e il governo italiano nel 2024 destinerà una cifra di circa 10 miliardi di euro agli investimenti sugli armamenti, cifra che dovrebbe mantenersi nei prossimi anni.
Analoghi contributi per altri settori civili?
L’Unione europea con la PAC – Politica Agricola Comune – si è impegnata per il periodo 2021-2027 con 386 miliardi di euro a questo comparto, che però impiega oltre 20 milioni di persone e ha realizzato un risultato di 369 miliardi di euro per il commercio agroalimentare da gennaio a novembre 2022. In ambito sanitario, per un settore con 14,3 milioni di occupati, si ha ‘EU4Health’ – Programma d’Azione dell’Unione Europea – in materia di salute per il periodo 2021-2027 ed è il più ampio mai realizzato dall’UE in termini di risorse finanziarie (5,1 miliardi di euro), in risposta alla pandemia da COVID-19, destinato ad una popolazione di 450 milioni di abitanti.
Più fatturato più occupazione?
NO! Prendiamo, ad esempio l’andamento del fatturato e del numero di occupati nel settore aerospaziale in Europa dal 1981 al 2016. Nei 35 anni considerati (un tempo sufficientemente lungo per considerarlo un dato strutturale), il fatturato aumenta dell’enormità del 366%, e l’occupazione un calo del 7,2%. ‘Disaccoppiamento’ evidente tra fatturato e occupazione, comune ad altri settori economici. Ma peggio nel settore armamenti: mentre gli occupati nel militare sono il 54% in meno, quelli nel civile sono cresciuti dell’84%. È un dato che può stupire, ma per chi conosce il settore sa che dietro ai numeri c’è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo: l’Airbus. Un programma vincente, al quale il nostro paese ha fatto la colpevole scelta di non partecipare, condannandosi in campo aeronautico (tranne nel comparto degli elicotteri e nei piccoli aerei a turbo-elica ed executive) a un ruolo di semplice sub-fornitore dell’industria aeronautica americana.
Anche negli USA si verifica quel disaccoppiamento’ tra andamento dei fatturati aziendali e addetti. Negli ultimi vent’anni il fatturato complessivo dell’industria aerospaziale americana è cresciuto del 166% (in linea con l’aumento delle spese militari USA +170%) mentre il numero totale degli occupati è diminuito del 13%. La decrescita dei posti di lavoro anche negli USA è maggiore nelle attività destinate a produzioni militari.
RISULTATO: Multinazionali militari, più fatturato, meno occupati, profitti +773%
Un’ulteriore conferma di questa tendenza sul piano internazionale (e non solo europeo o americano) emerge da un’analisi dei primi dieci gruppi multinazionali per fatturato militare al mondo. Dal 2002 al 2016, mentre, il fatturato totale dei dieci gruppi è cresciuto del 60% (e quello militare del 74%), il numero di occupati si è ridotto del 16%. In compenso i profitti di questi gruppi multinazionali, nello stesso arco di tempo, sono aumentati del 773%.
QUESTI OLTRE ALLA PACE SONO ALTRI MOTIVI CONCRETI PER ESSERE CONTRO LA POLITICA DI RIARMO PROPOSTA DALL’UE E DALLA GRAN BRETAGNA
UN MOTIVO IN PIU’ PER NON ESSERE OGGI IN PIAZZA A ROMA CON MICHELE SERRA & COMPANY
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