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Ombre su Torino

Seppelliti in cantina. Gli omicidi del killer della collina.

La brutta fine di due uomini solitari per scelta e una serie infinita di misteri.

Seppelliti in cantina. Gli omicidi del killer della collina.

Sette righe.

Questa storia inizia con un brevissimo trafiletto a pagina 48 de La Stampa del 14 febbraio 1992. In una manciata di parole viene raccontato che i familiari di Alfredo Schena, pensionato di 65 anni che vive in un cascinale in frazione Cordova, a Castiglione, non hanno più notizie del loro caro dal 21 dicembre dell’anno prima.

Un appello identico viene pubblicato il 18 nell’edizione serale dello stesso giornale ma, questa volta, a pagina 4 e con qualche dettaglio in più.
Si scopre che l’uomo è residente a Torino in corso Siracusa 20 ma che, da qualche anno, si è ritirato in collina dopo essersi separato dalla moglie.

È proprio la signora Clelia a denunciarne la scomparsa il 15 gennaio. Si presenta da Milano, dove abita coi due figli della coppia, alla stazione dei carabinieri di Gassino: “Temo sia successo qualcosa al mio ex marito. Sono separata da anni da Alfredo Schena ma abbiamo due figli e passiamo insieme a casa mia ogni Natale. Alfredo non ha mai saltato questo appuntamento. Quest’anno però, per la prima volta, io e i suoi figli lo abbiamo aspettato inutilmente. Gli ho telefonato pensando fosse malato. Il telefono suona a vuoto. Sono stata a casa sua, alla cascina in frazione Cordova a Castiglione. Non c’è nessuno...”

Il giorno dopo un maresciallo e un altro carabiniere salgono fino al casolare di Strada della Madonnina 20 e, arrampicatisi al primo piano con una scaletta, notano delle macchie rossastre sul divano a fiori nell’ingresso. Viste delle oche girare liberamente nel prato davanti alla proprietà, i due ipotizzano che le chiazze di sangue siano di altri volatili uccisi e mangiati durante le feste. Viene comunque deciso di analizzare i reperti ematici ma, invece di affidare gli esami a un laboratorio forense, li portano all’Avis.   I risultati arrivano solo i primi di marzo: non è sangue d’oca, è di un essere umano.

La mattina del 5 marzo i carabinieri ritornano in frazione Cordova e, stavolta, decidono di forzare il catenaccio che chiude la cantina della cascina. All’interno, un odore pestilenziale anticipa ai militi il rinvenimento di un cadavere di un uomo in avanzato stato di decomposizione.

Si trova nudo, adagiato su un vecchio materasso con le gambe sollevate, la testa all’indietro e un foro alla tempia destra. È stato ucciso con un colpo di calibro 22 sparato a bruciapelo al piano superiore e poi trascinato di sotto con l’intento, non riuscito, di buttarlo in un pozzo posto in cantina: è Alfredo Schena.

Alla ricerca di un movente, vengono ricostruiti i trascorsi della vittima che mostrano non pochi aspetti sorprendenti. Familiari e vicini di casa lo descrivono come un tipo per nulla socievole, che in compagnia degli altri è di poche parole e che va e viene dalle vite altrui senza avvisare.

Un solitario che ha divorziato con la moglie dopo un paio d’anni di convivenza e che si è rifugiato in collina dove sembra non essersi integrato con la comunità locale, all’infuori dell’unico amico che si è fatto da quelle parti, un certo Paolo Taricco.

Riservato nel privato risulta essere l’esatto opposto per quanto riguarda gli affari. Esperto compratore e rivenditore di immobili, intermediatore per case e appartamenti, si dilettava nel rilevare attività e terreni, riuscendo quasi sempre a ottenere ottimi profitti piazzandoli al miglior offerente. Era stato titolare dell’Italiana Gru, un’azienda edile con circa 100 dipendenti, aveva comprato 5 ettari di bosco all’isola D’Elba in attesa dell’occasione propizia e aveva avuto un’agenzia immobiliare ma era andato in pensione come titolare di un negozio di tessuti, dedicandosi nell’ultimo periodo al recupero crediti per conto terzi.

Nonostante le tantissime piste che sarebbero potute essere sviluppate partendo dagli interessi di Schena, l’Arma si convince che quella giusta sia quella sentimentale. Nessuna amante focosa o marito geloso, però, perché si viene sapere che il morto era gay e che frequentava in particolare un giovane, Tony, con cui la ex moglie sostiene abbia convissuto per 15 anni.  

Tony, all’anagrafe Antonio Impagnatiello, ha 32 anni e ha un fratello di 19 che si chiama Massimo. Vengono entrambi arrestati il 9 marzo, nonostante neghino entrambi recisamente non solo di aver avuto mai rapporti con Schena ma addirittura di essere a loro volta omosessuali.

A farli finire dentro sono un sacchetto con 17 proiettili trovati a casa dei due, un posacenere pieno di mozziconi di Diana blu (le preferite di Antonio) recuperato a casa Schena e il fatto che l’assassino, giacché nascose il cadavere in cantina, doveva conoscere molto bene il casolare, cosa confermata da diversi vicini che più volte avrebbero visto i ragazzi da quelle parti.

A premere il grilletto sarebbe stato Antonio, vecchio amante del pensionato, in quanto quest’ultimo avrebbe iniziato a fare delle pesanti avances nei riguardi del fratello minore. Gli Impagnatiello restano in carcere fino al 30 marzo. Le cartucce che hanno nel loro alloggio non sono dello stesso tipo di quelle dell’omicidio e sulle cicche di sigarette c’è si il DNA di Antonio ma si scopre che erano nel posacenere almeno da novembre. Non ci sono prove concrete, vengono liberati.

8 aprile 1992.

“Non vediamo Paolo da qualche giorno, venite vi prego.  I suoi animali stanno morendo”.

Una telefonata anonima manda i carabinieri in frazione Tetti Rosa, sempre a Castiglione, a 200 metri di distanza dal casolare di Schena.

Anche questa è una casa isolata, abitata da un uomo schivo e solitario in pensione e con la cantina chiusa a chiave da un lucchetto. Questa volta, dietro la porta, lo spettacolo è ancora peggiore. Ci sono venti pecore morte e altrettante agonizzanti perché non mangiano indicativamente da una settimana.

Sono a digiuno perché, in mezzo a loro, c’è anche il cadavere di chi avrebbe dovuto provvedere al loro sostentamento, con addosso con un maglione e un paio di calze gialle e ucciso da un proiettile al capo.

Non è solo un vicino di casa di Alfredo ma, probabilmente, l’unico amico che aveva in zona: il suo nome è Paolo Taricco.

61 anni, allevatore, ex elettrauto ed ex maestro di tennis, Taricco viene ammazzato con la stessa arma che ha mandato al creatore Schena, anch’egli in un casolare in collina e con modalità simili. C’è li fuori un serial killer che si accanisce su pensionati che vivono da soli? Per gli inquirenti, in realtà, l’assassino avrebbe fatto una seconda vittima perché quest’ultima sapeva chi aveva ucciso il suo amico.

E, stavolta, appena due giorni dopo, sono sicuri di aver preso l’uomo giusto.

È un cinquantanovenne romano pregiudicato per armi e reati contro il patrimonio che era già entrato nel caso, addirittura, con una doppia veste. Claudio De Berardinis era sia stato indicato dagli Impagnatiello come persona “che sa molte cose” sia risultava superteste proprio contro i due fratelli.

Aveva dichiarato, in data 2 aprile (la stessa in cui suppostamente sarebbe morto Taricco) che aveva regalato una pistola ad Antonio, l’arma utilizzata per entrambe le uccisioni. Sospettato di aver raccontato tutto questo esclusivamente per scaricare addosso a degli innocenti le proprie responsabilità, finisce dietro alle sbarre non solo perché in auto gli trovano un fucile che spara pallottole calibro 22 ma anche per un motivo molto più preciso.

Si scopre, infatti, che Claudio e Alfredo trent’anni prima erano amanti, abitavano insieme a Roma e avrebbero firmato un duplice testamento che prevedeva che ognuno avrebbe nominato l’altro suo erede universale. La loro storia dura poco, si lasciano e si sposano entrambi, Claudio rimane a Roma e Alfredo se ne va a Torino.

Poi, però, arriva il 1990 e la coppia si ritrova, il vecchio affiatamento sembra tornare quello di una volta e, anzi, progettano di andare a vivere in Francia aprendo un ristorante in Costa Azzurra. I due avrebbero litigato durante la definizione dell’affare e De Berardinis avrebbe ucciso Schena per ereditare tutto il suo patrimonio.  

Il problema è che la storia del lascito si rivela falsa, si viene a sapere che Claudio non ha 59 anni ma 40 (rendendo quindi impossibile una relazione con Alfredo 30 anni prima) e, soprattutto, le striature sui proiettili trovati nelle teste di Schena e Taricco non sono compatibili col fucile in suo possesso.

I toni trionfalistici dei carabinieri e dei giornali si affievoliscono nel giro di qualche giorno. Il “giallo risolto” torna ad essere “mistero della collina”; il “colpevole inchiodato” solo “un innocente che richiederà i danni allo stato”; le “prove schiaccianti” solo “flebili indizi spazzati via dalla realtà”.

Il caso viene archiviato nel 1994.

Chi abbia ucciso Alfredo Schena e Paolo Taricco e, soprattutto, perché, non è mai stato chiarito.

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