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Editoriale
20 Novembre 2024 - 12:25
Castello e Centin. Sullo sfondo una scena tratta dal film "Io Capitano" di Matteo Garrone. Consigliatissima la visione
Ieri, in quel di Chivasso, si è consumato l’ennesimo capitolo della grande saga italiana della politica dell’apparenza. Con solennità degna di un evento storico, l'amministrazione comunale di centrosinistra guidata dal sindaco Claudio Castello e dal suo vice Pasquale Centin ha deciso di "conferire" (notare le virgolette) la cittadinanza onoraria a 350 minori stranieri.
Sì, avete capito bene: onoraria, come a dire: “te, ciapà lì. Ti faccio il regalo, ma non puoi usarlo”. Una bella pacca sulla spalla simbolica e tanti saluti. Perché, si sa, nella Repubblica delle Banane, pardon Chivasso, come non puoi risolvere un problema reale? Con un’idea finta, ovviamente.
"Ius Soli? No, meglio lo Ius Selfie. Grazie". La cerimonia è stata spacciata come un passo epocale verso l’inclusione e i diritti. Ma, stringi stringi, cosa cambia per questi ragazzi? Nulla.
Rimarranno con i loro permessi di soggiorno da rinnovare, con tutte le complicazioni burocratiche annesse e connesse. Però ora hanno un bel diploma da appendere in salotto, che dice loro: “Ehi, sei un cittadino... onorario!”. Peccato che l’onore non paghi le tasse universitarie, né velocizzi i tempi per una vera cittadinanza.
A cosa serve, dunque, questa iniziativa? Serve a qualcosa per chi la riceve? O serve piuttosto a chi la concede, per un bel post sui social, con tanto di foto di gruppo e sorriso smagliante?
Perché, alla fine, è questo che resta: l’ennesima operazione di marketing politico, con tanto di riflettori e proclami altisonanti. Chivasso getta il suo "sasso nello stagno", come scrive sul sito "La Porta di Vetro" il vice sindaco Centin. Peccato che lo stagno rimanga sempre quello, melmoso e immobile. Puzzolente.
Uno dei tanti post pubblicati ieri dagli amministratori chivassese
Spostando il focus, però, la cittadinanza onoraria consegnata dal sindaco Castello può essere un apripista per altre idee. Quali?
Ecco qualche suggerimento, così "tanto per", sulla scia della cittadinanza onoraria: pacchi di soldi del Monopoli da spedire via posta dall'ufficio di via Dante Alighieri ai braccianti sfruttati dal caporalato nel Sud Italia. Perché no? Eh?
Sarebbe una mossa di grande effetto mediatico. Ci verrebbe fuori un bel selfie di gruppo.
Oppure: mettere nei pacchi e poi nei cannoni dei fiori di carta da inviare ai bambini di Gaza. "Un gesto che scalda i cuori" la bella frase acchiappalike da piazzare sotto la foto postata su facebook. "Stop war!".
Perché "stop genocide!" è un po' troppo forte per questi politici qui.
E che dire dell'idea di stampare migliaia di biglietti aerei finti da regalare a marocchini o algerini che vogliono lasciare l'Africa per l'Europa? Sarebbe un bel modo per incentivarli: "Fate presto".
Queste strampalate idee hanno tutte qualcosa in comune con la cittadinanza onoraria ai minori stranieri chivassesi: l'ipocrisia vomitevole che ti fa pensare di rappresentare un grande Paese solidale e inclusivo, senza muovere un dito per cambiare davvero le cose.
E mentre a Chivasso ieri si celebrava l’inclusione simbolica, è bene ricordare cosa significhi ottenere la cittadinanza italiana, quella vera. L’iter attuale è un percorso a ostacoli che richiede:
In poche parole, un’odissea che lascia fuori tanti ragazzi che crescono italiani di fatto, ma non di diritto. La cittadinanza onoraria, con tutto il rispetto, non è una scorciatoia, è un modo per non affrontare il problema.
Ma cosa sono lo "Ius Soli" e lo "Ius Scholae" di cui gli amministratori chivassesi abusano sui social in queste ore?
Per chi non lo sapesse, lo Ius Soli è il principio per cui chi nasce sul territorio italiano diventa automaticamente cittadino, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Lo Ius Scholae, invece, lega la cittadinanza al completamento di un ciclo scolastico o educativo in Italia. Entrambi i principi puntano a rendere più inclusiva e moderna la normativa italiana, ma per ora restano proposte ferme nei cassetti del Parlamento.
Certo, leggere i comunicati della maggioranza di Castello & Co. ti fa quasi commuovere. “Un investimento per la crescita economica, politica e sociale”, scrivono. Ma la domanda sorge spontanea: cosa crescerà mai da un’iniziativa che, di fatto, non cambia nulla nella vita reale di questi ragazzi? Sono ancora senza diritti di voto, senza possibilità di partecipare pienamente alla società, senza quella stabilità che solo una cittadinanza vera può dare.
E poi, non dimentichiamoci il messaggio che arriva ai ragazzi stessi: “Non possiamo darti quello che meriti, ma guarda quanto siamo bravi a darti... un palliativo!”. Diciamocelo: questa politica dei simboli vuoti è una presa in giro.
Fa pensare a quei finti assegni giganti che si usano nelle lotterie televisive: tanto belli da vedere, quanto inutili da incassare.
E qui viene il nodo della questione. Pensate a un uomo come Marco Pannella, che per i diritti veri ha digiunato, protestato, sfidato le istituzioni. Cosa direbbe di fronte a una trovata del genere? “Ma siete seri?”. Perché le battaglie per i diritti non si vincono con le cerimonie, ma con l’impegno concreto. Con iniziative coraggiose, con leggi che cambiano davvero le cose, non con operazioni da social media.
Castello & company non hanno il potere di legiferare, ovviamente, ma l'opportunità di fare qualcosa di diverso, certamente sì.
Citare Marco Pannella non è un caso: è il simbolo del politico italiano che ha dedicato la sua vita alla promozione dei diritti civili, delle libertà individuali e delle riforme sociali, spesso ricorrendo a metodi di protesta nonviolenti, come scioperi della fame e della sete. Esattamente l’opposto degli amministratori chivassesi, che protestano "simbolicamente" al fianco degli stranieri, ma che non rinunciano nemmeno a un panino.
Incatenarsi davanti alla Prefettura di Torino? Manco per sogno!
Certo, altri sindaci lo hanno fatto per altre questioni, ma qui si preferisce la comoda via del gesto simbolico che non costa nulla, nemmeno una briciola di sacrificio personale.
L'aveva detto anche Khaby Lame, la star di TikTok, che ottenne la cittadinanza italiana proprio a Chivasso solo dopo anni di attesa e burocrazia. Lame stesso ha definito questa situazione inaccettabile: “Se cresci in un posto, sei di quel posto”. Eppure, a Chivasso, per lui è andata come per tutti gli altri, salvo poi essere quasi "premiato" con foto, selfie, video e scene degne di un post su TikTok quando la cittadinanza è stata conferita a quel "Khaby Lame", non quello che ha aspettato nei dieci anni prima. Era "quel" Khaby Lame re di TikTok, e non "quell'altro" Khaby Lame che nemmeno ai palazzi di via Togliatti conoscevano.
Insomma, per concludere quello che resta è una sensazione di ipocrisia dilagante che pervade un'azione che tutt'altra cassa di risonanza meriterebbe piuttosto che le pagine dei giornali che gli stanno dedicando.
"Non possiamo darti quello che ti spetta, ma possiamo farti una bella festa". Si parla di inclusione, ma si pratica l’esclusione. Si invocano grandi principi, ma si resta immobili davanti alle vere sfide. E mentre gli amministratori chivassesi si fanno belli davanti ai fotografi, i ragazzi a cui si dedica questa "primavera di diritti" tornano a casa con il solito bagaglio di incertezze e problemi irrisolti.
La domanda è: fino a quando possiamo tollerare questa politica degli annunci?
Perché la vera cittadinanza non è fatta di diplomi o cerimonie. È fatta di diritti concreti, di riconoscimenti veri, di un impegno autentico per migliorare la vita delle persone. Fino ad allora, continueremo a essere spettatori di questo teatrino, in cui i protagonisti principali non sono mai i cittadini, ma chi li usa come comparse per il proprio tornaconto politico.
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