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Ombre su Torino
07 Luglio 2024 - 06:30
L'omicidio del professor Romeo D'Orazio
Oggi, al 167 di corso Francia, il Bar Plaza risulta chiuso, almeno temporaneamente.
Nel 1992, invece, le serrande di quello che in quel momento si chiama pub Plaza de Babilonia vengono abbassate sempre molto tardi di notte. Sono circa le 3.45 del 30 agosto e all’interno del locale ci sono almeno ancora dieci persone. Due di queste, una coppia di amici sulla cinquantina, hanno appena salutato il proprietario e stanno per uscire quando, appena varcata la soglia, si fermano pietrificati.
Il Pub Plaza de Babilonia
È un attimo.
La porta del locale si riapre di schianto e i due iniziano a correre all’interno, andando a sbattere tra i tavoli tra le facce sbigottite degli altri avventori. Dietro di loro compare un trentenne, col volto coperto da un passamontagna e una Beretta calibro 9 in mano.
Si scatena il panico e, tra le grida e il rumore di bicchieri che esplodono cadendo sul pavimento, l’aria viene squarciata dal sibilo di una pallottola e da un urlo straziante. L’uomo mascherato ha appena colpito a un braccio quella che sta per diventare la sua vittima che, però, trova ancora la forza di provare a scappare verso la cucina. La fuga è vana: il killer lo raggiunge alle spalle e lo finisce con altri quattro proiettili al volto e al petto. L’omicida ha portato a termine il suo “lavoro” in circa un minuto e poi è se l’è data a gambe, lasciando a terra il professor Romeo D’Orazio.
51 anni, il morto si guadagnava da vivere insegnando educazione fisica all’Istituto Professionale Colombatto di via Gorizia e come allenatore in palestra all’American di via Assarotti. La sua viene descritta come un’esistenza senza scossoni, ordinaria, abitudinaria. Accanto a una passione viscerale per il suo lavoro, D’Orazio si divide tra la compagna, le partite del Toro alla domenica e l’amore per il suo cane. Stimatissimo dai colleghi, gli amici ne ricordano l’infinita generosità: dava soldi in prestito a chiunque gliene chiedesse, anche a costo di rimanere squattrinato a fine del mese.
L’unico “vizio” che gli viene imputato è quello delle carte. Gioca in giro per locali, spesso anche scommettendo discrete somme di denaro e, infatti, il suo solo piccolo guaio con la giustizia lo aveva avuto nel 1980 quando era stato denunciato per gioco d’azzardo. Ipotizzandone una doppia vita, la Stampa, in maniera involontariamente ironica riferisce: “Il movente sembra ricercarsi nel mondo dell’usura e del totonero che il professore avrebbe comunque frequentato solo al sabato. Gli altri giorni era un integerrimo insegnante”.
Inizialmente le indagini scavano nel mondo delle scommesse clandestine e dello strozzinaggio, anche perché si scopre che la convivente dell’ucciso era stata di recente coinvolta marginalmente nel caso di un prestasoldi di alto bordo con contatti anche tra i magistrati della procura di Torino. Spunta fuori che un mese prima qualcuno aveva dato fuoco al portone del condominio di D’Orazio e che lo stesso si era trovato tagliate le gomme della sua Renault 4.
Il problema è che sul professore non viene trovato neanche il briciolo di un indizio e che, soprattutto, a delineare i contorni della tragedia, dopo qualche giorno di shock profondo, ci pensa l’amico che era con lui quella sera. Alfonso Faraci (detto Fofò) racconta che quel giorno sono stati insieme sin dal pomeriggio.
Prima sono stati al bar Envy (dove per altro lo stesso Faraci, due anni prima, era stato colpito da una pistolettata) poi fuori a cena e infine, intorno alle 3, già particolarmente alticci, sono arrivati al pub per il bicchiere della staffa.
Il bar Envy
Si accomodano a un tavolino e incrociano lo sguardo con una donna e il suo fidanzato seduti poco vicini, accompagnati da un giovane rimasto in piedi al bancone. A D’Orazio scappa un complimento di troppo rivolto alla signora, volano sguardi di fuoco e qualche insulto a mezza bocca ma non sembra accadere nulla, anzi, mentre l’allenatore si alza per andare a prendere una boccata d’aria, il ragazzo in piedi dice a Faraci che avrebbe saldato il conto anche per loro. Quando la vittima lo scopre, tuttavia, lo prende come un gesto di sfida, un’offesa. Lo sentono urlare: “Non sono un morto di fame, il conto me lo pago da solo!”. Tra il trainer e il terzo uomo scoppia un litigio: si spintonano, vola qualche schiaffone ma poi “Fofò” riesce a mettere la pace e il gruppetto “avversario” si dilegua. Passano dieci minuti e il giovane del bancone torna col passamontagna sulla faccia, consumando la sua vendetta a colpi di rivoltella.
Faraci sa chi ha sparato, lo conosce, lo frequenta da tempo ma ai Carabinieri dice solo che è un cliente del pub ma che non ne sa il nome. Il motivo lo si scopre 5 mesi dopo quando, dopo una fuga tra Francia, Inghilterra e Olanda, ad Alicante, in Spagna, viene arrestato Antonino Callarame, 32 anni.
Antonino Callarame
Questi non è uno qualunque ma fa parte del clan Saffioti-Belfiore, responsabile tra il 1988 e il 1992, solo a Torino, di dieci omicidi. In una parola: ‘ndrangheta. E non parliamo di manovalanza criminale ma del gruppo che a metà anni ’80 prende il posto dei Catanesi nella gestione degli affari sporchi della città, tra spietati regolamenti di conti, sfruttamento della prostituzione, estorsioni e spaccio di droga. Basterebbe dire che quando, nel giugno 1992 i vertici delle due famiglie litigano irreversibilmente, Saverio Saffiotti, detto il re di piazza Campanella, trova proprio lì la morte attinto da 23 pallottole. Oppure che a Borgaro, nel 1994, al cartello vengono sequestrate cinque tonnellate di cocaina: valore totale 275 miliardi di lire.
Quando finisce a terra nel Pub Plaza de Babilonia Romeo D’Orazio non sa con chi avesse avuto la sventura di litigare. Come non sa, perché si scoprirà solo tempo dopo, che non solo Faraci conosceva Callarame ma che lo stesso “Fofò” era affiliato ai Saffioti. Come non può sapere, e ormai poco gli può interessare, che la sua morte è l’unica non provocata da fatti di criminalità organizzata a carico del clan in quel periodo terribile. Ha semplicemente bevuto troppo in una serata qualsiasi, ha fatto un complimento alla donna cui meno avrebbe dovuto farlo e ha questionato con chi ancor meno andava provocato. Una serie incredibile di coincidenze e segreti mai svelati.
Diventato nel frattempo un pentito, Antonino Callarame viene condannato a 13 anni e 3 mesi di reclusione nel 1998, venendo giudicato col rito abbreviato e ottenendo importanti sconti di pena in quanto collaboratore di giustizia.
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