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Ombre su Torino

Morire a Torino, a 15 anni, assassinata da un "bruto"

L'omicidio di Maria Pia Alparone

L'omicidio di Maria Pia Alparone

L'omicidio di Maria Pia Alparone

Primavera.

Dall’inizio di maggio nubi nere cariche d’acqua fanno capolino sul cielo di Torino quasi ogni giorno. Calano come lunghe ombre sulla città, la fanno piombare nell’oscurità ed esplodono in una sinfonia di tuoni e lampi. Piogge torrenziali tramutano le strade in fiumi in piena che trascinano via le auto in sosta, abbattono gli alberi, fanno saltare la luce in interi quartieri. Sembra storia d’oggi ma è il 1977.

In una pagina interna de La Stampa del 22 maggio si calcola che quel mese di maltempo, a Torino e provincia, ha provocato danni per 12 miliardi di lire d’allora solo per quanto riguarda le opere pubbliche. Incalcolabili i danni ad abitazioni private, agricoltura e industria. Nello stesso foglio trova posto un articolo dedicato a una vicenda che, per gravità, non sfigura di fianco alle devastazioni guidate da Madre Natura.

Racconta del signor Giacomo Giangola che si trova a camminare in collina, a Revigliasco, in Strada Maddalena. È il mattino del 21 maggio e, in un silenzio spettrale, l’unico rumore che percepisce è un cane che abbaia furiosamente. Giangola segue i latrati e vede che l’animale si trova al di sotto del livello della strada, in una scarpata in mezzo al bosco: si sta accanendo contro un involucro di plastica molto grande chiuso con alcuni giri di spago.

L’uomo non fa in tempo ad aprire il fardello per vedere cosa ci sia dentro che da una delle estremità spunta fuori la testa di una donna. Ha trovato un cadavere che è li da qualche giorno, come testimonia il viso che è stato reso completamente irriconoscibile dai topi.

I primi rilievi sulla salma parlano di una ragazza sui 27/30 anni vestita con una gonna bianca, una camicetta lilla e una giacchetta di jeans azzurra. Indossava dei lunghi stivali di pelle e addosso non le vengono trovati documenti ma solo un borsellino con 3500 lire e una madonnina di metallo.

Si pensa a una prostituta che non ha voluto soddisfare delle particolari richieste di un cliente e che, per questo motivo, è finita in quel burrone con il cranio fracassato.

In assenza di indizi concreti, di testimoni e dell’identificazione della vittima, i Carabinieri notano che all’interno di uno degli stivali che portava c’è un’etichetta con scritto “Alparo”.

Verificato che erano stati risuolati da poco, gli inquirenti iniziano a battere tutti i calzolai della città. Quello giusto si trova in via Ormea: “Si, certo riconosco gli stivali. Alparo è il cognome di una ragazza, l'ho scritto io. Bella, bruna sui 15/16 anni, abita qui intorno”.

Dopo una breve ricerca, si scopre che in realtà il cognome è Alparone e che esiste una famiglia che si chiama così al 124 di via Ormea.

Gli inquirenti bussano a casa Alparone e, dopo qualche domanda, scoprono che la figlia, Maria Pia, è sparita il 16 maggio.

Maria Pia Alparone

I genitori ne avevano denunciato la scomparsa alla Polizia, anche se spesso l’adolescente andava via di casa e tornava dopo qualche giorno.

Studentessa dal carattere turbolento, era stata bocciata alle scuole medie e frequentava un corso di recupero di due anni in uno in un istituto privato.

Per il resto il tipico vissuto di chi ha compiuto 15 anni da qualche mese: gli amici, le prime sigarette, un paio di ingenue cotte. Alla vista degli stivali la madre li riconosce ma non vuole credere che quel cadavere sfigurato sia della sua bambina. Aveva letto sul giornale che in collina avevano trovato una trentenne, forse una prostituta o una tossica, niente a che vedere con “Mary”.

Si convince solo al riconoscimento in obitorio e dopo che una perizia odontoiatrica rivela che alla morta non erano ancora spuntati i denti del giudizio: è Maria Pia.

Lo stabile dove abitava viene rivoltato da cima a fondo e, in una cantina, viene rinvenuto un grosso martello col manico e la testa chiazzate di sangue. A terra altre macchie vermiglie rinsecchite e, oltre a diverse riviste pornografiche, anche qualche metro di spago identico a quello utilizzato per impacchettare il corpo. Vengono fermate 13 persone abitanti nel palazzo e i Carabinieri scelgono di interrogare per ultimo un giovane che da subito si era mostrato sospetto.

È un meccanico di 26 anni, grande e grosso che passa le giornate nel cortile dell’edificio a truccare i motorini: si chiama Alessandro Valle. Alcuni compagni di scuola di Maria Pia riferiscono che il pomeriggio del 16 maggio si erano recati insieme alla vittima a casa di Valle e che, mentre chiacchieravano in cucina, Alessandro era sceso in cantina e che Maria Pia lo aveva seguito. Dopo venti minuti, il ragazzo era tornato su da solo e aveva raccontato che l’amica era dovuta andare via. Messo alle strette, intorno alle 3 del mattino del 24 maggio Valle confessa. "Ho sempre avuto grossi problemi con le donne io. Mary era giovane, graziosa, mi sorrideva sempre. Lunedi 16 è venuta da me di pomeriggio con altri amici. Avevano tutti i motorini perchè sanno che me ne intendo io. Lei sempre accanto a me, leggermente provocante. Sono andato in cantina a prendere una chiave per svitare un bullone di un motore e lei mi ha seguito. Laggiù al buio era vicino a me. Vedevo solo i suoi grandi occhi che mi fissavano. Ho cercato di abbracciarla ma mi ha respinto. Allora ho cercato di non farmela scappare ma proprio non ne voleva sapere. Si è divincolata e in un gesto scomposto ha battuto la testa contro il muro. L'ho vista sanguinare".

Alessandro Valle

Il finale di questa deposizione è probabilmente ancora peggiore: “Quando ho sentito il sangue colare anche sulle mie mani ho pensato che non dovesse soffrire. L'ho finita a colpi di martello. L'ho coperta con dei sacchi che avevo in cantina e sono tornato subito su e ho detto ai suoi amici che era tornata a casa”. Poi prosegue: “Nella notte ho preso quel fagotto e me lo sono caricato sulle spalle. Pensavo di andare al Po e buttarlo giù. Quando sono arrivato al ponte Isabella ho intravisto un cittadino dell'ordine. Ho avuto paura. Ho gettato il corpo di Mary avvolto nei sacchi di plastica dietro a dei cespugli. Ho pensato di rubare una macchina. Ho preso una "500", ho tolto il sedile anteriore e sono andato verso la collina. Non avevo idee precise. Arrivato al ristorante "Bastian Contrario" ho lasciato la vettura e con il corpo di Mary sulle spalle ho fatto centinaia di metri. Quel bosco mi è parso ideale per nascondere tutto. L'ho buttata lì.

Non pago, il giorno dopo telefona a uno zio di Maria Pia, tentando di imitarne la voce in falsetto: “Sono Mary. Sono a Milano. Di alla mia famiglia di non preoccuparsi ma io non torno”. Gli eventi successivi sono frenetici.

Finito in carcere, il 29 maggio Valle tenta di suicidarsi tagliandosi le vene. Non ci riesce e, al suo risveglio in ospedale, cambia versione: “Sono stato minacciato di morte da due individui incappucciati che mi hanno costretto a scendere in cantina dove c'era il corpo di Mary senza vita. Mi hanno obbligato a impacchettare il corpo, a portarlo in collina e buttarlo di sotto. Ho confessato perché in caserma un uomo in borghese mi ha detto che facendo così me la sarei cavata più in fretta”.

L’identità di tutte queste persone, ovviamente, è rimasta sconosciuta.

Rinviato a giudizio per omicidio volontario aggravato da sequestro a fini di libidine, nel gennaio 1980 Valle viene condannato, grazie alla seminfermità di mente, a 27 anni. Nelle motivazioni della sentenza si legge di un ragazzo legato alla madre da un rapporto fanciullesco e che conosceva la vittima da un po’.

Desiderava avere un approccio con lei da tempo e quella era l’unica volta in cui le si era trovato vicino con nessuno intorno. Ha provato a violentarla, lei si è opposta ma quel gigante di 125 kg l’ha sopraffatta. L'ha uccisa per evitare che lei potesse parlare e ha commesso un omicidio nato non da un raptus, ma da un «ripugnante razionalismo».

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