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Per chi suona la campana
28 Aprile 2024 - 07:00
Dei preti ordinati fino ad oggi da monsignor Edoardo Cerrato, vescovo di Ivrea, soltanto cinque sono autoctoni; tutti gli altri provengono da fuori diocesi o sono stati incardinati già sacerdoti. Il dato si presta a varie valutazioni. Innanzitutto, che Ivrea rientra nel trend che caratterizza tutte le altre diocesi dell’Occidente, che hanno visto le vocazioni diradarsi nel tempo per poi calare drasticamente.
E questo mentre sono mutati e mutano i paradigmi antropologici, sociali e culturali che reggono l’impianto della nostra società e che imporranno, in un tempo ormai prossimo, il ripensamento della parrocchia come architrave su cui si regge la Chiesa. Quella che rimane il fulcro della vita cristiana sembra infatti procedere incurante e del tutto impermeabile con gli stessi ritmi, le stesse iniziative e le stesse modalità del passato.
Ma detto questo, e rimanendo al tema, ciò che si osserva è che gli ordinati non indigeni — ottimi preti a detta di tutti — sono sottoposti, da parte dei preti indigeni, a critiche astiose e sorde che, oltre a imputare loro di «arrivare da fuori», giungono a dire, senza nemmeno accorgersi del razzismo insito in tale affermazione, che meglio sarebbe stato — come hanno fatto Aosta e Casale Monferrato — avere al loro posto una bella infornata di preti provenienti dal Togo o dal Ghana.
Le motivazioni non stanno soltanto, però, nell’inveterato provincialismo che distingue il loro lamento di vacche sterili, ma hanno due ordini di ragioni. Intanto, il fervore e lo zelo che animano i giovani preti e che inevitabilmente darà — a differenza di chi li critica — i suoi frutti, e poi la loro ortodossia che, in una diocesi educata ad essere «istituzionalmente eretica», dà proprio fastidio. Ma vi è poi anche qualcosa in più. I presunti reprobi hanno un profilo umano che li rende attrattivi ed esercitano fra di loro e con tutti una fraternità vera e non solo predicata agli altri.
Adesso gli acidi critici — ma anche qualche ex giovane carrierista insediato in parrocchie importanti — aspettano il nuovo vescovo che si spera — e hanno buone ragioni per crederlo — sia un progressista radicale e si possa così tornare ai bei tempi. Il punto è che, come diceva Carlo Marx, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa; e questo perché, con la messa in discussione dell’autorità episcopale da parte progressista, l’obbedienza contrattata, la povertà retribuita e la castità alternata impostasi in questi anni, spuntano le ali ad ogni vescovo. A ciò si aggiunga la caduta libera delle vocazioni, la diserzione dei fedeli e le chiese semivuote.
Ma infine, non c’è proprio da preoccuparsi: i geronti del progressismo diocesano hanno un avversario implacabile. Che non è il tradizionalismo o «l’indietrismo» ma si chiama anagrafe.
Ne prendano buona nota alla consueta riunione conviviale della vicaria della Serra, ai cui incliti componenti — compresi un linguacciuto canonico e un reduce del guevarismo ecclesiale d’antan — inviamo i nostri deferenti saluti.
* Frà Martino
Chi è Fra Martino? Un parroco? Un esperto di chiesa? Uno che origlia? Uno che si diverte è basta? Che si tratti di uno pseudonimo è chiaro, così com’è chiaro che ha deciso di fare suonare le campane tutte le domeniche... Ci racconterà di vescovi, preti e cardinali fin dentro ai loro più reconditi segreti. E sarà una messa non certo una santa messa, Amen
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