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Giorno della memoria

Ivrea ricorda Perla, Giuseppe e Davide Foà e si unisce al dolore dei parenti di uno dei ragazzi uccisi da Hamas. Aveva 29 anni

Davanti alla sinagoga le pietre d'inciampo posizionate sei anni fa dall’artista tedesco Gunter Demnig

TUTTE LE FOTO sono di Annamaria Pastore

TUTTE LE FOTO sono di Annamaria Pastore

Nella mattinata di sabato 27 gennaio una delegazione dell’Anpi e una rappresentante del Consiglio comunale si sono recate in via IV Martiri, davanti alla Sinagoga ebraica, per rendere omaggio, assieme a Liliane Barda e Guido Rietti della Comunità ebraica, a tre nostri concittadini: Perla Foà, Giuseppe Foà e Davide Foà, deportati e deceduti nel 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz, e qui rappresentati dalle tre pietre d’inciampo posizionate sei anni fa dall’artista tedesco Gunter Demnig.

Gabriella colosso

Ivan Pescarin

Un mazzo di fiori donato da Rita Munari

L'assessora Gabriella Colosso, che per prima ha preso la parola, ha ricordato una frase di Primo Levi: “L’olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”.

Per Colosso tutti hanno il dovere di vigilare sulle pietre d’inciampo vere e proprie "carte di identità per riportare le persone dove vivevano, dove svolgevano la propria vita prima dello sterminio, prima di essere trasformati in numeri... Devono far inciampare, in senso figurato, le riflessioni dei passanti, dei cittadini, spingendoli a ricordare il motivo per il quale si trovano in quel preciso luogo...

Anche per Mario Beiletti, presidente Anpi “ricordare deve essere un imperativo costante...".

"La Resistenza al fascismo - ha precisato - non fu soltanto di chi scelse la strada della montagna e della lotta partigiana. Resistenti furono anche i militari di Corfù, che vennero annientati dalle truppe tedesche. Lo furono i soldati che difesero Roma abbandonata dal loro re in fuga. Lo furono gli Internati militari, che rifiutarono in massa la facile offerta di aderire alla Repubblica Sociale. Lo furono i Deportati ebrei e tutti coloro che soffrirono e morirono nei lager. Gli Ebrei, prima di tutto, e poi gli Zingari, gli omosessuali, gli handicappati, i politici, le popolazioni dell’est considerate sotto-uomini. Tutti, a loro modo, resistettero. Ogni loro respiro fu una resistenza. Paradossalmente, la loro resistenza alla morte, il restare tenacemente in vita dietro il reticolato contribuì alla sconfitta del nazismo, perché sottrasse migliaia di soldati germanici dal fronte. 

A Gerusalemme sei fiaccole perenni ardono per ricordare i 6 milioni di Ebrei spariti nel vento. Il 27 gennaio fu il giorno della liberazione di Aushwitz: la scoperta della terribile realtà dello sterminio. Una scoperta che faticò ad essere compresa. Chi tornò dai lager non venne creduto, tanto era indescrivibile ciò che era successo. Primo Levi ci disse come fosse impossibile raccontare l’universo concentrazionario. Rimase in loro il senso della colpa, la domanda: «Perché io sono sopravvissuto, perché non mia madre, mia sorella, mio padre? Perché io sono vivo?» 

"E' un errore gravissimo mettere sullo stesso piano la Shoah e altre, pur terrificanti, vicende di oggi - ha aggiunto Beiletti - Ci sarà tempo e modo di riflettere sul 7 ottobre di Hamas e sulla reazione del governo israeliano su Gaza. In questo momento, però, in questo Giorno della Memoria, noi esprimiamo solo il desiderio di pace...".

Guido Rietti della Comunità ebraica di Ivrea si è concentrato sul significato della Giornata della Memoria…

"Due giorni fa a Milano sono state poste nuove pietre d'inciampo. Tre di esse portano i nomi della sorella di mia nonna, di sua figlia e di suo genero - ha raccontato - I tre avevano cercato troppo tardi, cioè solo il 6 dicembre del 1943, di fuggire in Svizzera, ma erano stati traditi e presi dai fascisti. Furono deportati col convoglio n° 6 partito dal Binario 21 (lo stesso di Liliana Segre, di suo padre e dei suoinonni) ed arrivato ad Auschwitz il 6 febbraio del 1944. Lì furono uccisi...".

Sempre Rietti sulle terribili stragi del 7 ottobre contro il popolo di Israele sconsigliando a tutti "facili" paragoni con la Shoah e lo sterminio di un popolo.

"Uno degli italo-israeliani stroncato con la fidanzata nell'attacco al Rave Party nel deserto - ha informato - era un giovane di 29 anni, di nome Nir Forti. Forse non sapete che Nir Forti viene pianto anche qui, ad Ivrea, dove abitano alcuni parenti, membri della sua famiglia di origine...".

Nir Forti

Originario di Omer, 10 chilometri a est di Beer Sheva, Nir Forti, 29 anni, viveva da molto tempo a Tel Aviv, dove lavorava come responsabile vendite presso la TytoCare, un’azienda che si occupa di assistenza sanitaria. Aveva la doppia cittadinanza italo-israeliana.

In conclusione Ivan Pescarin, in veste di membro del Direttivo Anpi, ha ricordato che le infami leggi razziali, che dettero origine alle persecuzioni, furono inaugurate proprio in Italia dal regime fascista. Ciò non va mai dimenticato…

Liliane Barda, della Comunità ebraica, è toccato tratteggiare la storia della famiglia Foa

Le Pietre d'inciampo di Ivrea e la famiglia Foa

Tra settembre 1938 e l’estate 1943, i censimenti degli ebrei, fatti anche a Ivrea con rara ed angosciante meticolosità, si concludono con la stesura un elenco di circa 45 nominativi, come attesta il ricco archivio storico del nostro Comune.  Ma dopo l'Armistizio dell’8 settembre 1943 e l’invasione dei tedeschi, in pochi mesi la situazione cambia velocemente per gli ebrei. Per salvarsi dagli arresti e dalle deportazioni, qualcuno parte per l’estero, qualcuno altrove in Italia, e molti salgono in montagna e vengono nascosti in baite da persone generose quanto coraggiose, spesso in condizioni di estremo disagio, nel terrore permanente, ben consci dell’imbarbarimento del tempo. Ma sono vivi.

Verso fine anno, degli Ebrei censiti in città sono rimasti solo in quattro.

Si tratta di Perla Foa vedova Faluomi, nota in passato per aver fatto la Mugnaia nelle Storiche Celebrazioni Eporediesi nel 1892, e dei suoi due fratelli maggiori Davide, ex cancelliere del tribunale di Torino con sua moglie Giuditta e Giuseppe, vedovo, ex-direttore di una tipografia. Vedova da tempo, Perla abita qui in via Palma e percepisce una piccola rendita come custode della sinagoga.

Il 2 dicembre 1943, appena due giorni dopo l’ordinanza di polizia che dispone l’arresto e l’invio di tutti gli ebrei nei campi di concentramento provinciali, vengono arrestati tutti e quattro e portati in carcere, ossia nel Castello di Ivrea, adibito a carcere dal 1700 (e fino al 1970). Poco dopo morirà Giuditta di peritonite acuta evidentemente non curata. Forse per questo lutto e per la loro età vengono liberati il 22 dicembre e possono tornare nella loro casa. 

Ma all’inizio del 1944 l’occupazione tedesca si estende e gli arresti definitivi diventano sistematici. Perla ha 71 anni. I suoi fratelli Davide e Giuseppe ne hanno rispettivamente 78 e 75. Per stanchezza o per ingenuità, decidono di non lasciare casa loro, pur sapendo dei rischi ed essendo addirittura stati informati da una voce amica di imminenti rastrellamenti nazisti.  E in effetti, il 31 marzo 1944 sono nuovamente arrestati e incarcerati. Detenuti prima a Torino vengono successivamente portati a Fossoli, il tristemente famoso campo di transito per raccogliere ebrei, oppositori politici e altri civili destinati alla deportazione in Polonia. Da Fossoli partono i convogli, ciascuno dei quali contenente 600-700 persone da cui sopravviverà meno di una su dieci.

Il 16 maggio il treno sul quale sono stati fatti salire i fratelli Foa lascia Fossoli. Il trasferimento ad Auschwitz dura 7 giorni, nelle condizioni terribili che conosciamo. E come sappiamo, all’arrivo, la morte è immediata: per le persone anziane, inutilizzabili, non è prevista alcuna alternativa alle camere a gas. 

Ecco, questa è una storia di dimensioni piccole, quasi banale di fronte all’ampiezza dell’accanimento persecutorio di quel periodo, ma ne è parte integrante e indissociabile. Con questo racconto vogliamo ricordare il senso delle nostre pietre d’inciampo e la pagina di storia a cui si riferiscono e l’intera famiglia Foa.

A ricordare la famiglia Foa anche un mazzo di fiori portato da Rita Munari. 

 Perla, la Mugnaia del 1892

Perla Faluomi Foa, qui ritratta nel 1892 con l’abito da Mugnaia del Carnevale, nacque ad Ivrea il 16 novembre 1873, figlia di Mosè Foa e Giuditta Jona. I Foa, una famiglia di ebrei sefarditi costretti a lasciare la Spagna al tempo delle persecuzioni religiose nel XVI secolo, si stabilirono dapprima a Savigliano, poi ad Ivrea. Perla Foa morì nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia, nel 1944, nel quale era stata deportata con i fratelli Giuseppe e Davide (riproduzione fotografica per gentile concessione di Raimondo Mazzola).

 

Pagine di Storia

In una splendida pagina di storia pubblicata su questo sito il racconto della Comunità ebraica ad Ivrea fin dalle sue origini. 

La comunità ebraica eporediese.

Dopo l’emancipazione dello Statuto albertino, la comunità ebraica eporediese raggiunse la cifra record di 160 persone. Non sono poche, se si pensa che nel 1938 tutti gli ebrei in Italia assommavano a 46.656 unità, di cui una parte era costituita dalla recente immigrazione di polacchi e tedeschi.

I componenti della comunità ebraica eporediese diminuirono progressivamente fino ad attestarsi intorno ai 75 residenti nel 1900. Il calo è dovuto principalmente ai trasferimenti a Torino, che offriva migliori opportunità di lavoro. Una lieve ripresa della popolazione ebraica di Ivrea si ebbe intorno al 1920 per le opportunità offerte dalla fabbrica di Camillo Olivetti. In seguito il declino riprese inarrestabile; al tempo delle leggi razziali i residenti erano 35 e dopo la guerra una quindicina. Oggi gli ebrei si riducono a poche unità, tanto che non si possono celebrare vere e proprie funzioni religiose per le quali la tradizione richiede la presenza di almeno 10 persone. Rimangono in vita, nel piccolo oratorio invernale, delle conferenze, cui per altro possono assistere tutte le persone interessate, tenute dal rabbino di Torino.

Più che la quantità, per altro consistente in alcuni periodi, è però la qualità che colpisce nella presenza ebraica a Ivrea. Nomi come quelli dei Pugliese, dei Foa, degli Jona, e su tutti quelli di Camillo e di Adriano Olivetti, hanno segnato profondamente le vicende di Ivrea e del Canavese.

Queste famiglie, approdate all’agio e alla distinzione di una colta vita borghese, venivano da un passato tormentato e difficile, in cui le comunità ebraiche erano rigorosamente separate dal resto della popolazione e soggette a vessazioni di ogni genere, miranti soprattutto a estorcere loro denaro. 

Quella che oggi è via Quattro Martiri era nel passato via Palma, terzo e ultimo ghetto ebraico, cancellato dall’emancipazione del 1848. Ancora al principio del secolo scorso erano visibili, infissi sui muri ai due capi della via, gli arpioni su cui si incardinavano i battenti delle porte che al tramonto si chiudevano sul ghetto, isolandolo dal resto della città. Nelle ore, dall’alba al tramonto, in cui potevano uscire, gli ebrei dovevano portare come segno di riconoscimento la stella di Davide sul petto.

Al ghetto era collegato il cimitero ebraico, tuttora esistente, come sezione separata del cimitero municipale in via dei Mulini.

In precedenza c’erano già stati due successivi ghetti, il primo nella zona di Borghetto, dietro la chiesa di san Grato, a cui era collegato un cimitero nella zona di Porta Aosta, e il secondo nel centro della città, in via Napoleone, nella località che venne poi chiamata Contrada degli Ebrei.

Le prime tracce.

Le prime tracce di presenza ebraica in Ivrea e nel contado circostante risalgono al tardo medioevo, contrassegnate al solito da violente sommosse ispirate in parte da fanatismo religioso, in parte da spirito di rapina e dalla volontà di distruggere i documenti in cui erano registrati i debiti.

Il primo nucleo stabile di residenti ebrei in Ivrea è certificato però da un atto notarile del 1547, che garantisce a quattro fratelli ebrei provenienti da Nizza Monferrato il diritto decennale di svolgere attività commerciali, a condizioni estremamente gravose, sia dal punto di vista finanziario che dal punto di vista esistenziale.

Intorno a questo primo nucleo si sviluppa una comunità che corre il rischio di essere espulsa, subisce vessazioni di ogni genere, vede continuamente violati a proprio danno i patti sottoscritti, è soggetta a continue estorsioni di denaro, ma resiste e si rafforza, sia per virtù propria (fedeltà alla fede religiosa, capacità di mantenere saldo il legame comunitario attraverso una rete di soccorsi reciproci e di aiuti ai più bisognosi, cura dell’educazione e dell’istruzione); sia per virtù civica, perché il prestito di denaro è necessario per qualsiasi impresa, sia individuale che collettiva, e perché l’incremento del commercio giova all’intera cittadinanza.

E una traccia dell’importanza che la città riconosce alle attività della comunità ebraica si ha in un episodio di vita cittadina più volte citato.

Nel 1801 un attacco brigantesco di contadini contro gli ebrei venne ingegnosamente sventato con l’aiuto della popolazione locale, che indusse a mostrarsi in armi un gruppo di soldati ricoverati nell’ospedale, e con strepitio di cavalli in marcia convinse gli assalitori a credersi contrastati dai soccorsi e a volgere in fuga.

Il primo momento di sollievo per la comunità ebraica si ebbe con le leggi che equiparavano gli ebrei agli altri cittadini. Infine, dopo un ritorno alla discriminazione durante la Restaurazione, giunsero finalmente i primi provvedimenti di emancipazione, a partire da dove meno si poteva aspettarselo, dallo Stato Pontificio di Pio IX.

Si sa che papa Mastai Ferretti incominciò il suo pontificato con una serie di provvedimenti liberali che infiammarono il sentimento neoguelfo e fecero intravedere ai liberali cattolici la possibilità di conciliare fede religiosa e ideale politico, e di sviluppare il moto nazionale sotto la guida della massima autorità religiosa.

Fu un’illusione, naturalmente. Il papa fece una clamorosa retromarcia, e con il Sillabo si dichiarò nemico acerrimo di ogni istanza liberale. Gli stessi provvedimenti a favore degli ebrei vennero dimenticati e soltanto nel 1870, con il passaggio allo Stato Italiano degli ultimi resti dello Stato Pontificio, la comunità ebraica ottenne la sospirata emancipazione.

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