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07 Settembre 2025 - 01:38
“È trascorsa un’altra settimana di guerre, di morti, di distruzioni. Ucraina, Gaza, Palestina, Sudan: sono i nomi che torneranno più volte in questo presidio, come un rosario doloroso che nessuno vorrebbe recitare”. Così Pierangelo Monti sabato scorso al 184° Presidio per la Pace. Ancora una volta lì, in piazza Ferruccio Nazionale, con gli occhi e le orecchie puntati sulla guerra a Gaza e sulla guerra in Ucraina che continua inesorabile, scandita dai bollettini dello Stato Maggiore di Kiev: 159 scontri nelle ultime ventiquattro ore.
Eppure, mentre i soldati muoiono, i leader rimandano ancora una volta gli incontri decisivi, anteponendo – come denuncia Monti – “gli interessi delle proprie parti politiche alla rinuncia alla guerra, che dovrebbe essere la prima condizione concreta per la pace”. Così la retorica si gonfia e le minacce si rincorrono: Zelensky apre all’ipotesi di inviare migliaia di truppe occidentali, Putin ribatte che sarebbero “bersagli legittimi”. Nel frattempo, villaggi, campi e città vengono distrutti, e con essi la speranza di chi aveva costruito con fatica un pezzo di vita.
E poi Gaza. E' da 700 giorni sotto assedio, devastata da bombardamenti che hanno già ucciso oltre 70 mila persone. Monti evoca l’immagine del palazzo di dodici piani ridotto in polvere dai missili israeliani. “Che cosa si può fare per fermare Israele?” domanda a gran voce. Alcuni scenari possibili ricordano il Sudafrica dell’apartheid: isolamento politico, culturale e sportivo, fino al boicottaggio economico e militare. Lo strumento del BDS – Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni – come un’arma civile e concreta. L’esempio più vicino? La protesta contro la partita Italia-Israele del 14 ottobre a Udine, con prese di posizione coraggiose, dal sindaco della città friulana fino a Renzo Ulivieri e all’Associazione italiana allenatori di calcio. Segni, forse piccoli, ma che incrinano il muro del silenzio.
La speranza corre anche sull’acqua, con le decine di barche della Global Sumud Flottilla salpate per Gaza. E intanto, mentre aerei militari israeliani atterrano a Sigonella e navi cariche di armi transitano dal porto di Ravenna, c’è chi come il sindaco di Ravenna Alessandro Barattoni ha il coraggio di dire no: “Non voglio che il nostro scalo sia complice del massacro a Gaza”.
Non sono solo i politici a muoversi. Dal Coordinamento Scuole per la Pace arriva la notizia che in diverse città, al primo collegio docenti, è stata approvata la proposta di dedicare un minuto di silenzio al rientro in aula. Un minuto per i bambini uccisi, per quelli che hanno perso la scuola, per Gaza che non ha più futuro. Lo stesso appello viene rilanciato qui a Ivrea e al Canavese, con la speranza che gli insegnanti non restino indifferenti.
Monti parla anche del Sudan, della guerra tra esercito regolare e milizie RSF che ha già provocato oltre 12 milioni di sfollati, un disastro umanitario definito dall’UNHCR tra i peggiori del pianeta. Ma di Sudan non parla quasi nessuno. Forse perché non interessa, forse perché non fa comodo.
Eppure ci sono anche segni di resistenza. A Cernobbio 250 delegati di associazioni pacifiste italiane discutono al forum “Addio alle armi”, promosso da Sbilanciamoci e Rete Pace e Disarmo.
Al microfono Livio Obert riporta al centro Gaza e la grande manifestazione di Genova in sostegno della flottilla. Migliaia di persone, giovani, famiglie, una raccolta di beni alimentari che ha superato ogni aspettativa. “Io e Monica c’eravamo” racconta. Poi la fiaccolata, con canti e bandiere, con la convinzione che fare anche un piccolo gesto significhi stare dalla parte giusta. Lo stesso spirito si è respirato a Pertusio, nell’Alto Canavese, dove si è letto di Palestina e poesia, come i versi di Giuliana Reano con “Il mare di Gaza”, dedicata a una donna immaginaria, Maryam.
Il passato ritorna con le parole di Norberto Patrignani, che evoca la Guerra di Spagna e le Brigate Internazionali. Sessantamila volontari da cinquanta nazioni, tra loro intellettuali come Orwell, Hemingway, Rosselli, Berneri, Di Vittorio. Un’epopea che dimostra come la solidarietà tra i popoli sia più forte delle frontiere. “Per noi oggi il concetto di Patria è universale” scriveva il cubano Pabìo de la Torriente Brau prima di cadere a Madrid. E quelle parole risuonano oggi, mentre un altro popolo resiste sotto le bombe.
Giorgio Franco parla apertamente di “complicità”. Complicità dei governi occidentali, complicità dell’Italia. Legge un pezzo di Lavinia Marchetti sugli interessi economici dietro il silenzio. Racconta del progetto europeo UnderSec, finanziato con 6 milioni, che vede l’Autorità portuale di Ravenna collaborare con il Ministero della Difesa israeliano e con l’azienda bellica Rafael, produttrice dei droni che devastano Gaza. Ricerca civile che diventa strumento di guerra. Ipocrisia che grida vendetta.
E ancora: i giacimenti di gas al largo di Gaza affidati all’Eni, con un valore stimato di 200 miliardi di dollari. Risorse palestinesi trasformate in bottino di guerra. Le ONG denunciano, parlano apertamente di crimine di saccheggio, ma Roma tace, e con lei l’Europa. Due pesi e due misure: inflessibili con la Russia, indulgenti con Israele. Per Franco, questa è la prova che i valori occidentali sono ormai merce di scambio.
La domanda resta: cosa fare? Le parole si fanno coraggiose. Forse l’unica strada è chiedere davvero i Caschi Blu a Gaza, attraverso la procedura Uniting for Peace dell’ONU. Non solo appelli, ma un intervento che garantisca almeno l’accesso ai viveri e alle medicine.
E se Piera De Andrea guarda alla scuola che ricomincia, ai bambini che devono sapere e “non basta insegnare matematica e grammatica, bisogna trovare spazi per raccontare la realtà, per far crescere coscienza e responsabilità”, Leila Talbaoui "commuove" i presenti con una canzone composta da un’amica palestinese.
Il presidio si chiude con l’appuntamento al 185°, sabato 13 settembre, dalle 11 alle 12, sempre in piazza Ferruccio Nazionale.
Nel pomeriggio corteo e manifestazione per la Palestina, da piazza Ottinetti allo Zac, in preparazione del grande appuntamento regionale del 20 settembre a Torino.
Segni concreti di una comunità che non si arrende, che vuole continuare a dire, ogni settimana, che la pace non è un’utopia ma un dovere. Anche oggi Ivrea ha fatto la sua parte, piccola ma testarda, per ricordare al mondo che non possiamo rassegnarci alla guerra.
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