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Cronaca

Si incatena per amore: Natalina Colangelo e la lotta disperata per riavere suo figlio

Quattro anni di dolore, proteste e denunce: una donna sola contro un sistema che le ha tolto suo figlio. «Non mi fermerò finché non lo riavrò con me». E l’indifferenza delle istituzioni pesa come una condanna.

Un gesto che sa di dolore e di disperazione. Due giorni fa, Natalina Colangelo, 42 anni, si è incatenata ai cancelli del Tribunale per i Minorenni di Torino. Da due giorni in Corso Unione Sovietica, con un lucchetto in mano. Accompagnata dalla madre di 72 anni, con un microfono in mano gridare al mondo tutta la sua rabbia.

Una catena e un lucchetto per legarsi fisicamente a quei cancelli che simboleggiano tutto ciò che le è stato tolto: «Non andrò via, non mangerò e non berrò finché non avrò la certezza che mio figlio tornerà a casa con me», spiega al microfono, sotto lo sguardo incuriosito e a tratti imbarazzato dei passanti.

Natalina è madre di un ragazzino di 13 anni che da quattro anni vive nella comunità terapeutica Centro Paolo VI di Casalnoceto, in provincia di Alessandria. Una decisione, quella di allontanare il bambino, che lei non accetta e non accetterà mai.

davanti ai cancelli

Quel 14 gennaio 2020, quando un’ambulanza lo portò via dalla scuola Rodari di Settimo Torinese, segnò l’inizio del suo personale calvario. «Aveva solo 7 anni e me l’hanno strappato», ricorda con la voce rotta.

Era un bambino iperattivo, con un ritardo cognitivo, ma Natalina sottolinea come avesse già tutti i supporti necessari: «Aveva un insegnante di sostegno e un educatore. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Ma la scuola non voleva ammettere di non essere in grado di gestirlo, così hanno chiamato i servizi sociali. E così mio figlio mi è stato portato via».

La situazione raggiunse il culmine quando alcuni genitori degli altri alunni organizzarono uno sciopero, chiedendo che il bambino non frequentasse più la classe.

«Era un bambino felice. Certo, aveva dei problemi, ma non meritava questo», racconta Natalina, ricordando con amarezza come fosse stata bollata come una madre inadeguata.

Prima che fosse allontanato, la loro vita era normale. «L’ultima settimana prima che me lo portassero via eravamo andati a Roma, avevamo incontrato Papa Francesco. Cristian era felice, rideva, era sereno».

La battaglia di Natalina non si è mai fermata. Le sue proteste pubbliche, spesso eclatanti, l’hanno portata a imbrattare la sede dei servizi sociali di Settimo Torinese con della vernice, un gesto che le è costato diverse denunce.

È stata accusata di atti persecutori, interruzione di pubblico servizio, mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari. «Hanno cercato di criminalizzarmi, ma cosa dovevo fare? Stare zitta mentre mi portavano via mio figlio?»

Il Comune di Settimo, guidato dalla sindaca Elena Piastra, ha scelto di querelarla, formalizzando la decisione con la delibera di Giunta numero 148/2024. Nel documento si parla di comportamenti “aggressivi, minatori e persecutori”.

Natalina, tuttavia, non si è mai lasciata intimorire. È convinta di una cosa: «Questa è una battaglia giusta, e non mi fermerò finché non avrò giustizia».

Anche sui social, dove utilizza il profilo Girasole Serpente, Natalina continua a raccontare la sua storia, pubblicando video delle sue proteste. Monta tende davanti alle scuole, dorme sui marciapiedi, indossa magliette con la foto del figlio. Ogni gesto è un tentativo di attirare l’attenzione, ogni parola è un grido di aiuto.

La vicenda di Cristian è arrivata fino alla Corte di Cassazione, dove gli avvocati Francesco e Pasqualino Miraglia stanno cercando di ottenere la revoca del decreto di adottabilità. Tutto fermo per una consulenza tecnica disposta dal Tribunale per i Minorenni mai eseguita, bloccata da un parere negativo della Comunità.

«Le informazioni che forniscono sono contraddittorie», spiega l’avvocato Miraglia. «A volte dicono che Cristian sogna la madre, altre che la teme. Come possiamo sapere qual è la verità?»

Natalina, intanto, continua a chiedersi perché nessuno intervenga. «Perché i giudici mi hanno presa di mira? Perché nessuno mi aiuta? Dove sono i politici? Perché mio figlio è trattato come un problema da nascondere?»

Un piccolo spiraglio si era aperto qualche mese fa, quando del caso se n'era interessata l’assessore regionale Chiara Caucino, garante dell’infanzia.

Secondo Natalina, l’assessore le avrebbe riferito che suo figlio aveva espresso un solo desiderio: tornare a casa dalla mamma e dalla nonna. «Poi il silenzio, non mi ha più detto nulla. Mi sento abbandonata da tutti».

Nel frattempo, Natalina affronta un giudizio che pesa come una condanna. Due gradi di giudizio hanno dichiarato la sua “inidoneità” come madre, una decisione che lei non accetta.

«Come possono dire che sono inidonea? Non mi hanno dato neanche la possibilità di vederlo. Nei due anni di pandemia ci siamo visti una sola volta, attraverso una finestra».

La rabbia di Natalina esplode anche contro il sistema scolastico e i servizi sociali, che accusa di aver rovinato la sua famiglia. «Hanno voluto colpirmi perché sono una ragazza madre e lui perché è disabile. Le maestre cercavano di farmi passare per tossica, quando io sono una donatrice di sangue. Mio figlio diceva di essere bullizzato, ma invece di aiutarlo, l’hanno portato via».

In questa storia, piena di dolore e di rabbia, sembra esserci un solo colpevole: l’indifferenza.

E non possiamo credere. E non vogliamo credere che una madre che lotta così, non sia all'altezza di crescere un figlio.

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