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23 Novembre 2025 - 17:51
“Tchaba tcha”: quando un ritornello di guerra conquista le classifiche. La parabola di Privat dal reparto di gendarmeria alle Top 10 africane. Un milite con il microfono e milioni di visualizzazioni: la hit nata in Burkina Faso parla di patriottismo, social e propaganda, sullo sfondo di un Sahel in ebollizione.
La videocamera di un telefono inquadra un lampeggiante blu che taglia il buio, poi l’immagine si allarga e svela caschi, giubbotti, un pickup che sobbalza su una pista di terra rossa. A bordo, un uomo in uniforme, fucile d’assalto tra le mani, scandisce un ritornello che esplode come uno slogan: Tchaba tcha. È la voce di Privat, il gendarme-cantante che ha trasformato la cadenza delle marce militari in un hook capace di colonizzare i feed di mezza Africa. Da Ouagadougou alle timeline internazionali il passo è stato sorprendentemente breve: qualche mese, milioni di visualizzazioni e una trasformazione rapidissima, da brano identitario a vero e proprio mantra di mobilitazione. C’è chi lo celebra come simbolo di orgoglio nazionale, chi lo considera un veicolo di propaganda, e chi lo vede come un prodotto culturale figlio di un’epoca in cui musica, conflitti e algoritmi si intrecciano ben oltre la superficie sonora.

Dietro il nome d’arte Privat c’è il Maresciallo dei Logis Capo Siogo Mardocher Privat Yad, un profilo che tiene insieme caserma e palcoscenico senza soluzione di continuità. La sua vocazione artistica non nasce dal nulla: nel settembre 2024 pubblica il suo primo album, “4.5”, un riferimento diretto alla 45ª promozione della Gendarmeria, un lavoro intriso di rap, afro-trap e suggestioni tradi-moderne, impreziosito da collaborazioni con artisti come Smarty, Sofiano e Kayawoto. I testi insistono su un’idea chiave, che l’autore definisce “galvanizzazione”: la musica deve servire a “irrigare d’energia il combattente”, rafforzare la fiducia nelle forze di sicurezza e accompagnare una narrativa patriottica che negli ultimi anni è diventata parte strutturale del discorso pubblico burkinabé.
In questo solco arriva “Tchaba tcha”, pubblicata tra il 30 aprile e il 1° maggio 2025, cantata in larga parte in lingua mossi e definita dallo stesso autore “un grido di guerra e un simbolo della determinazione a lottare per la libertà del Burkina Faso”. Poche settimane dopo l’uscita la canzone supera le massime soglie di visibilità nel Paese: milioni di visualizzazioni su YouTube, settimane di permanenza nelle classifiche, picchi oltre i nove milioni di views stando ad alcune rilevazioni, e un’immediata diffusione sulle piattaforme di streaming, dove Apple Music ne certifica lo sbarco come singolo nei primi giorni di maggio. La struttura ritmica, con una percussività secca e una metrica scandita come un passo di marcia, costruisce una call-and-response che sembra pensata per essere cantata in gruppo, ripetuta, memorizzata senza sforzo. Un brano cucito addosso all’epoca dei video brevi, dei cori spontanei e delle colonne sonore istantanee.
A rendere virale la hit non è solo la musica, ma l’immaginario che la accompagna: clip girate sul campo durante le missioni, camionette che attraversano zone operative, reparti che marciano o si addestrano, lampeggianti che fendono la notte. Le immagini, rilanciate su TikTok e Instagram, fondono estetica militare e linguaggio social, una miscela che, per effetto dell’algoritmo, amplifica potenza e riconoscibilità del ritornello. Il “gendarme-artista” diventa così un personaggio perfetto per un ecosistema comunicativo che chiede autenticità, spettacolo e simboli forti, e “Tchaba tcha” si trasforma in colonna sonora transnazionale, amatissima nelle comunità del Sahel, nelle diaspore e nei paesi confinanti.
La parabola della canzone si inserisce in un contesto regionale estremamente delicato. Nel maggio 2025 i ministri della Cultura dei Paesi dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) – Burkina Faso, Mali e Niger – convalidano un inno ufficiale comune, un gesto altamente politico in un’area segnata da colpi di Stato, guerre interne, sanzioni, riorganizzazioni istituzionali e una narrativa sovranista che ormai struttura tanto la politica quanto la cultura. I festival musicali in Mali, le rassegne itineranti e le produzioni artistiche finanziate dai governi militari hanno moltiplicato gli spazi in cui musica e identità collettiva si incontrano, costruendo un archivio sonoro che racconta appartenenze e ambizioni politiche.
Il contesto del Burkina Faso resta però quello di un Paese immerso in una guerra ibrida. Dal 2022 si registrano due colpi di Stato, l’ascesa del capitano Ibrahim Traoré, la rottura con la Francia, l’uscita dalla CEDEAO insieme a Mali e Niger, e un progressivo riavvicinamento a Mosca. Sul terreno si combatte contro gruppi affiliati ad al-Qaida e allo Stato islamico, con un bilancio umanitario devastante: oltre due milioni di sfollati a fine 2024, 5,9 milioni di persone in stato di bisogno nel 2025, migliaia di vittime documentate da ACLED e rilanciate da fonti europee. Il primo trimestre del 2025 registra più di 1.600 morti, mentre ONG come Human Rights Watch denunciano esecuzioni di civili attribuite tanto ai jihadisti quanto a reparti dell’esercito e ai VDP (Volontari per la Difesa della Patria). L’eco di questi eventi attraversa la società e si riflette anche nelle opere culturali che vi nascono attorno.
A marzo 2025 un attacco a Diapaga attribuito al JNIM provoca decine di morti tra i militari, in un contesto segnato da precedenti rappresaglie e massacri di civili nella regione di Solenzo. A maggio nuovi episodi di violenza coinvolgono comunità del Sahel e del Nord-est, con testimonianze che parlano di esecuzioni di massa e di un ciclo di controinsurrezione sempre più irregolare. Parallelamente, sul piano politico la giunta decide nel luglio 2025 di dissolvere la Commissione elettorale indipendente, trasferendone le funzioni al Ministero dell’Interno e proiettando la transizione fino al 2029. Una decisione che alimenta preoccupazioni sulla concentrazione del potere e sulla marginalizzazione delle garanzie democratiche.
Il successo di “Tchaba tcha” finisce così per diventare, al di là dell’intenzione dell’autore, la colonna sonora implicita dell’era Traoré, un periodo in cui la costruzione dell’immagine del leader si fonde con una retorica di autosufficienza nazionale, spesso rilanciata sui social anche attraverso contenuti prodotti con intelligenza artificiale. Questa crescita di popolarità convive però con critiche riguardanti libertà di stampa, diritti umani e trasparenza delle operazioni militari, mentre il rapporto sempre più stretto con la Russia si inserisce nel più ampio gioco geopolitico del Sahel.
In questa cornice la musica assume un ruolo ambivalente. In Burkina Faso è da tempo un dispositivo di mobilitazione: nell’insurrezione del 2014 i brani del movimento Balai Citoyen accompagnarono le proteste contro l’allora presidente Blaise Compaoré, trasformando la piazza in un coro politico. Oggi quello stesso potenziale si trova incanalato – in parte – nella retorica patriottica delle autorità. “Tchaba tcha”, con la sua semplicità ritmica e la sua coralità immediata, è ideale per parate, raduni, video di reparti in addestramento e celebrazioni collettive. Il rischio è che la normalizzazione estetica del conflitto renda meno visibili le vulnerabilità della popolazione, le violazioni documentate da ONG e le fragilità strutturali della società civile.
La stessa struttura del brano contribuisce alla sua forza virale. Un ritmo medio-veloce con kick incisivo, rullate che richiamano il passo militare, un hook sillabico costruito per la ripetizione e una voce posta in primo piano in un mix minimale rendono “Tchaba tcha” perfetta per micro-video, radio comunitarie, folle in festa e persino per l’uso interno nelle caserme. È musica funzionale, che aderisce alla realtà da cui proviene e che, per questo, riesce a scalarne le emozioni e i simboli.
Il nodo etico resta aperto. Per alcuni la canzone è il canto di una resistenza legittima, per altri un tassello della propaganda governativa. La storia recente del Burkina Faso, con sospensioni di emittenti internazionali e restrizioni all’accesso all’informazione, mostra come la comunicazione possa essere parte della strategia militare e politica. In questo panorama l’arte che galvanizza può diventare un collante sociale, ma rischia anche di essere un velo che attenua la percezione della complessità del conflitto.
Eppure qualcosa, al di là del beat, emerge con chiarezza: “Tchaba tcha” racconta un Paese che cerca una voce in un contesto dominato dal rumore della guerra, dei social e delle narrazioni geopolitiche. Un Paese fatto di cittadini che cercano sicurezza, giovani che vogliono ballare, sfollati che cercano un luogo dove tornare, artisti che tentano di dire qualcosa anche quando il margine per farlo si restringe.
Il servizio del Tg2 Storie firmato da Valerio Cataldi ha mostrato questa tensione: la figura di Privat, militare e artista allo stesso tempo, che passa dalla frontiera della sicurezza alle classifiche, incaricandosi di rappresentare un immaginario che il Burkina Faso sta usando per dire al mondo chi vuole essere. Una narrazione che, risentita alla luce del contesto, appare ancora più eloquente: per capire il Sahel di oggi bisogna ascoltarne i ritmi, ma anche fermarsi oltre il battito.
Nel Sahel contemporaneo la musica non è mai soltanto intrattenimento. È un semaforo politico, un catalizzatore sociale, talvolta un’arma narrativa. “Tchaba tcha” funziona perché è semplice, contagiosa e situata: nasce da un corpo in uniforme e parla a una nazione che chiede protezione e orgoglio. Ma per ascoltare davvero il Burkina Faso di oggi serve andare oltre il ritornello, pretendere responsabilità e protezioni dei diritti. Perché un Paese non si libera a colpi di hook, ma può trovare in un hook la forza di immaginare il passo successivo.
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