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09 Ottobre 2025 - 17:56
A Gaza, raccontare la verità è stato un atto di eroismo. E di condanna.
Per due anni, chi impugnava una telecamera, un taccuino o una penna sapeva che ogni parola poteva essere l’ultima. Che documentare la realtà del genocidio israeliano avrebbe significato firmare la propria sentenza di morte.
Dal 7 ottobre 2023, più di 270 giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi. Non nelle retrovie, ma sul campo, mentre filmavano, scrivevano, trasmettevano. Erano uomini e donne che credevano che la verità, anche quando non salva, potesse almeno testimoniare. Che l’immagine di un bambino estratto dalle macerie, una voce nel buio, una cronaca urlata tra le bombe potessero restare quando tutto il resto fosse crollato.
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Molti di loro hanno continuato a filmare anche quando le esplosioni facevano tremare la terra sotto i piedi. Hanno tenuto la telecamera accesa fino all’ultimo, in un atto di resistenza contro il nulla. Alcuni hanno ripreso la propria morte. Le loro immagini — spesso le ultime — sono piene di polvere, di mani tremanti, di occhi che cercano la messa a fuoco dentro il caos.
In un video, un giovane cronista guarda fisso nell’obiettivo e dice: “Non so se uscirò vivo da qui. Ma se muoio, mostrate questo.”
E il mondo ha visto. Ha visto tutto.
Uno di loro, Issam Abdallah, reporter di Reuters, ha scritto nel suo taccuino poco prima di essere colpito: “Non si può smettere di raccontare, nemmeno quando il mondo smette di ascoltare.”
Altri, come Shireen Abu Akleh, diventata simbolo prima ancora che vittima, sono la prova che in Palestina il giornalismo è stato sacrificio. E che la verità, in certe terre, non è un diritto ma una condanna.
Non erano militari. Non avevano armi. Indossavano giubbotti con la scritta “PRESS”. Alcuni sono stati uccisi nelle loro case, insieme ai figli; altri mentre trasmettevano in diretta da un tetto o da una scuola bombardata.
A Gaza, la verità non si raccontava: si pagava. Ogni giornalista sapeva che probabilmente non sarebbe sopravvissuto. Eppure, nessuno si è fermato.
Hanno continuato a scrivere, a filmare, a caricare file sui social anche senza elettricità. Hanno testimoniato la morte degli altri e la propria.
Molte delle loro ultime parole sono rimaste intrappolate nei telefoni, nei messaggi vocali inviati ai colleghi o alle famiglie.
Una in particolare: “Se vedete questo video, significa che non ci sono più.”
Ora che la guerra è finita, che il cielo di Gaza è solo cielo e le macerie si mescolano alla sabbia, il silenzio pesa più del rumore. I giornalisti sopravvissuti camminano tra i resti delle redazioni distrutte e leggono sui muri i nomi dei colleghi caduti. Alcuni trovano ancora taccuini anneriti, telecamere fuse, microfoni insanguinati. Ogni oggetto è un frammento di memoria. Ogni memoria, un atto d’accusa.
Dietro ogni immagine arrivata in questi due anni, c’è un nome che non c’è più: un fotografo che non avrà funerali, un cronista che nessuno potrà ringraziare, una voce che non tornerà mai in onda. Le loro storie raramente sono finite sulle prime pagine dei giornali occidentali.
Eppure, senza di loro, il mondo non avrebbe saputo nulla. Non avrebbe visto nulla. Non avrebbe capito nulla.
Nel loro sacrificio c’è la prova più grande della resistenza palestinese: quella di chi sceglie di restare umano in mezzo all’orrore. Scrivere, filmare, testimoniare — anche quando la verità non basta più a fermare le bombe.
Essere giornalista, a Gaza, ha significato vivere con la morte alle spalle e la coscienza davanti. Portare luce dove tutti avevano deciso di spegnerla. Raccontare anche quando raccontare uccideva.
Oggi, mentre il mondo parla di ricostruzione, di tregue e di conferenze di pace, bisognerebbe fermarsi e ricordare questi volti.
Loro non ricostruiranno niente. Non vedranno i bambini tornare a scuola, non filmeranno i camion degli aiuti né i negozi che riaprono.
Ma senza di loro, nessuno saprebbe che tutto questo è accaduto.
La libertà di stampa, di cui in Occidente si discute nei convegni, a Gaza è stata scritta con il sangue. Ogni articolo, ogni ripresa, ogni post è diventato un atto di martirio. Quei giornalisti non erano eroi per scelta: erano professionisti che hanno continuato a fare il proprio lavoro quando farlo significava morire.
Nelle ultime righe trovate in un quaderno, recuperato tra le macerie di Khan Yunis, c’era scritto:
“Se moriamo, dite che stavamo lavorando. Dite che volevamo solo mostrare la verità.”
Ora che la guerra è finita, non possiamo che obbedire.
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