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16 Agosto 2025 - 16:05
Il film La Gioia di Nicolangelo Gelormini arriva al Festival di Venezia, unico titolo italiano selezionato alle Giornate degli Autori, e già il suo nome porta con sé un destino preciso: quello di entrare nella memoria collettiva non soltanto come opera cinematografica, ma come tentativo di rielaborazione di una delle pagine più tragiche della cronaca nera italiana recente, l’omicidio di Gloria Rosboch.
Non è un caso che Gelormini abbia scelto di ispirarsi liberamente all’opera teatrale Se non sporca il mio pavimento di Giuliano Scarpinato e Gioia Salvatori, scritta proprio a partire da quel delitto che nel 2016 sconvolse Castellamonte, il Canavese e il Piemonte intero. Lì, tra bugie, illusioni e un amore malato, si consumò la vicenda della professoressa che aveva creduto a un suo ex studente, Gabriele De Filippi, il quale, con la complicità dell’amico Roberto Obert, la portò a una morte assurda e crudele, uccisa e gettata in una discarica come fosse un oggetto senza valore. Una storia che non poteva non trovare spazio nell’immaginario di un cinema che sa ancora interrogarsi sul rapporto fra vittime e carnefici, fra ingenuità e manipolazione, fra potere e fragilità.
Nel film, Valeria Golino interpreta Gioia, un’insegnante di liceo che non ha mai conosciuto l’amore autentico, se non quello opprimente dei genitori. Nella sua vita irrompe Alessio, interpretato da Saul Nanni, uno studente che usa il proprio corpo per guadagnare denaro e aiutare sua madre, interpretata da Jasmine Trinca. Il legame che nasce tra loro non è solo proibito, ma inevitabilmente segnato dalla fragilità e dal bisogno reciproco. È un amore che ricorda da vicino quello che, nella realtà, la Rosboch pensava di vivere: un sentimento che si crede liberatorio e invece diventa una gabbia, un veleno capace di cancellare la dignità di chi ama e di travolgere con la sua forza distruttiva. Alessio, come Gabriele, vede nell’insegnante un’occasione di riscatto, ma la sete di emancipazione sociale lo porta a consumare quel rapporto come se fosse merce, e alla fine a distruggerlo. È un parallelo diretto e spietato con la vicenda della Rosboch, che fu illusa da promesse di viaggi e fughe romantiche, mentre dietro si nascondeva un progetto criminale.
Il lavoro di Gelormini è quello di evitare il sensazionalismo, la cronaca morbosa che ha già abbondantemente riempito i giornali, e di trasformare tutto in metafora, in linguaggio cinematografico. Torino e Roma, città delle riprese, diventano sfondi simbolici: la Torino grigia e scolastica, dove ogni rapporto sembra nascere già in gabbia, e Roma come promessa di un altrove, di un riscatto mai raggiunto. La fotografia di Gianluca Palma e il montaggio di Chiara Vullo contribuiscono a questa atmosfera sospesa, dove ogni gesto appare insieme quotidiano e già inscritto in un destino tragico. L’interpretazione di Golino restituisce dignità a una donna che, come Gloria, viene spesso ricordata soltanto come “vittima ingenua”. In realtà, ciò che emerge è la sua umanità: un bisogno d’amore profondo, un desiderio di uscire dall’isolamento, che la rende vulnerabile ma anche autentica.
Il legame con l’omicidio Rosboch è evidente e dichiarato, ma ciò che rende questo film diverso è l’operazione di trasfigurazione. Non c’è il tentativo di ricostruire i fatti, non ci sono i nomi veri, eppure ogni spettatore italiano non può non pensare a quella vicenda. È come se il cinema si prendesse il compito di restituire complessità a una storia che i tribunali hanno già archiviato, ma che resta viva nelle coscienze. L’opera teatrale che lo ispira aveva già vinto il Premio Franco Solinas nel 2021, e non a caso: perché ha saputo cogliere, dietro la cronaca, i meccanismi universali della manipolazione e della dipendenza affettiva. Gelormini li porta sullo schermo con uno sguardo visionario, privo di indulgenze, capace di alternare momenti di dolcezza e scene di gelo assoluto.
Saul Nanni regala ad Alessio una fisicità contraddittoria: fragile e desiderosa di affetto, ma allo stesso tempo determinata e spietata nel cercare la via di fuga dal proprio destino. Non è un personaggio monolitico, ma un ragazzo che si dibatte fra l’amore e la necessità, proprio come Gabriele De Filippi, il cui desiderio di apparire, di avere successo, di emanciparsi da una vita comune, finì per tradursi in una spirale criminale. Jasmine Trinca, nei panni della madre, dà corpo a un’altra figura chiave: la donna che ama il figlio e lo protegge, ma che diventa, suo malgrado, parte di un meccanismo di dolore. Non si può non pensare alla madre di De Filippi, anche lei travolta e poi condannata, coinvolta in un destino che ha schiacciato più generazioni.
Prodotto da Viola Prestieri per HT Film e Vision Distribution, con il sostegno di Sky e della Film Commission Torino Piemonte, il film porta con sé l’ambizione di parlare a un pubblico internazionale. Verrà distribuito nelle sale nel 2025 e partecipa a Venezia con la forza di chi vuole scuotere e non solo commuovere. E in questo senso, “La Gioia” diventa un titolo quasi paradossale, un nome che richiama ciò che i personaggi cercano senza mai trovarlo. La gioia non c’è, se non come miraggio, come promessa di chi è disposto a tradire pur di sentirsi vivo. È il rovescio della medaglia di ogni illusione amorosa, che nel caso di Gloria Rosboch si trasformò in un inganno mortale.
Il cinema, qui, si fa strumento di memoria e al tempo stesso di riflessione sociale. Il caso Rosboch non è solo un fatto di sangue, ma una ferita che interroga l’Italia sul rapporto fra insegnanti e studenti, sull’uso del corpo come merce, sull’illusione di emancipazione rapida attraverso il denaro. Gelormini non chiude gli occhi di fronte a queste domande, ma le porta sul grande schermo con la consapevolezza che il pubblico debba uscirne turbato, forse arrabbiato, ma soprattutto più attento. Perché dietro ogni cronaca nera ci sono dinamiche di potere e di fragilità che meritano di essere comprese, non solo giudicate. E se “La Gioia” riesce in questo compito, sarà un film destinato a restare, come la memoria dolorosa di un amore tradito che continua a chiedere giustizia.
Il 13 gennaio 2016 è una data che resta presente nella memoria collettiva del Canavese e dell’intero Piemonte. A Castellamonte, quella mattina, la professoressa di francese Gloria Rosboch, 49 anni, esce di casa indossando un abito scuro e un foulard. Ai genitori dice che deve recarsi a scuola per un incontro, ma non tornerà mai più. Da quel momento si apre un vuoto che diventa angoscia. I vicini, gli amici, gli ex alunni, i colleghi: tutti raccontano la stessa immagine, quella di una donna riservata, gentile, amata dai ragazzi, ma anche fragile. Le ore passano e l’assenza diventa sospetta. La sera stessa scattano le ricerche, coordinate dai carabinieri. Per settimane, la figura di Gloria resta presente in ogni angolo del paese: sui manifesti, negli annunci delle forze dell’ordine, nelle preghiere dei compaesani. Vigili del fuoco, unità cinofile, droni, elicotteri perlustrano boschi e fiumi, ma di lei non c’è traccia. Castellamonte vive sospesa, divisa tra la speranza di ritrovarla viva e il timore del peggio.
La speranza si spegne il 19 febbraio, quando una telefonata annuncia la svolta: il corpo della professoressa è stato ritrovato. Si trova in una cisterna abbandonata a Rivara, in un’area isolata del Canavese. È senza vestiti, strangolata, abbandonata come se non avesse valore. La notizia piomba come un macigno sulla comunità, e l’Italia intera inizia a parlare del “caso Rosboch”. L’immagine di quella donna mite, tradita, ingannata, diventa immediatamente simbolo di una fiducia calpestata.
Dietro la scomparsa, le indagini rivelano presto una storia incredibile e agghiacciante. Gloria era stata raggirata da un suo ex alunno, Gabriele Defilippi, appena ventiduenne. Con la promessa di una nuova vita insieme in Costa Azzurra, il giovane le aveva sottratto 187 mila euro, i risparmi di tutta una vita. Gloria, convinta dalle sue parole e dai suoi gesti, aveva creduto di avere finalmente accanto qualcuno che la amava davvero. Ma quando comprese la truffa, trovò la forza di denunciare Gabriele ai carabinieri. Quella denuncia, però, segnò la sua condanna a morte.
Defilippi non voleva affrontare né le conseguenze giudiziarie né la vergogna della menzogna svelata. Con il suo ex amante, Roberto Obert, cinquantenne conosciuto in ambienti frequentati dal ragazzo, mise a punto un piano. La sera del delitto la attirò in macchina con una scusa. Lei salì fidandosi, pensando forse a un chiarimento. Invece fu strangolata. Obert aiutò a occultare il corpo, gettato nella cisterna che divenne la sua tomba. A incastrarli fu proprio la confessione di Obert, stretto dalla pressione delle indagini, che indicò agli inquirenti il luogo dove giaceva il cadavere. Le prove tecniche — tabulati telefonici, celle agganciate, telecamere — confermarono la loro colpevolezza.
Presente nelle carte processuali e nella cronaca è anche la figura della madre di Gabriele, Caterina Abbattista. Accusata inizialmente di concorso in omicidio, venne poi assolta da quell’accusa ma condannata a dodici mesi per il ruolo avuto nella truffa ai danni di Gloria. Una vicenda che gettò un’ombra cupa anche sulla sua famiglia, incapace di frenare la deriva del figlio, e in alcuni casi addirittura complice.
Il processo si apre a Ivrea, e da subito diventa spettacolo giudiziario e ferita pubblica. L’aula è sempre piena. I genitori di Gloria, anziani e distrutti dal dolore, sono presenti a ogni udienza, seduti in silenzio, con lo sguardo fisso sugli imputati. I colleghi e gli ex studenti, increduli, assistono a un dramma che non avrebbero mai immaginato di vivere. In aula risuonano parole dure: il pubblico ministero parla di delitto “barbaro, efferato, commesso con lucidità e premeditazione”. I difensori tentano linee diverse: Obert cerca di minimizzare il proprio ruolo, Gabriele sostiene di non ricordare i momenti della morte, cerca di dipingersi come vittima di se stesso. Ma la verità è già chiara. La ricostruzione degli investigatori regge e inchioda gli imputati alle loro responsabilità.
Nel 2018 arrivano le condanne: 30 anni per Gabriele Defilippi, riconosciuto come esecutore materiale e ideatore del piano; 18 anni e 9 mesi per Roberto Obert, complice attivo nella trappola e nell’occultamento del cadavere; 12 mesi per Caterina Abbattista. In appello e in Cassazione, nel dicembre 2019, tutto viene confermato. La Suprema Corte definisce l’omicidio “lucido, barbaro ed efferato”, parole che pesano come pietre. È la chiusura formale di un caso giudiziario, ma non la fine di una ferita collettiva.
A Castellamonte il ricordo di Gloria è ancora oggi presente. Ogni anno, fiaccolate e messe ricordano quella donna mite, che aveva dedicato la vita alla scuola e agli studenti, e che proprio da un ex allievo è stata tradita e uccisa. I colleghi la descrivono come una persona discreta, che non amava la ribalta, ma che credeva profondamente nel valore della cultura e dell’insegnamento. Gli studenti la ricordano come severa ma giusta, pronta ad aiutare chi aveva difficoltà. I genitori, ormai anziani, hanno ripetuto più volte davanti ai giudici di aver perso non solo una figlia, ma anche la fiducia nella vita.
Il caso Rosboch resta uno dei più agghiaccianti del Piemonte contemporaneo. Non soltanto per la brutalità del delitto, ma per ciò che rappresenta: la manipolazione di una donna che cercava amore e normalità, trasformata in vittima di avidità e ambizione. Una vicenda che mostra quanto fragile possa essere la fiducia e quanto devastante diventi quando cade nelle mani sbagliate. La sua storia resta presente nei libri di cronaca, nei ricordi della comunità e nelle aule dei tribunali, ma soprattutto resta come monito: dietro le storie di truffa e inganno ci sono persone reali, vite spezzate, famiglie distrutte.
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