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Ivrea
25 Novembre 2022 - 15:06
Diciamoci la verità: la notizia che al Mozart di Ivrea ci sarebbe stato un incontro tra Agnese, figlia di Aldo Moro (rapito il 16 marzo 1978 e assassinato il 9 maggio successivo), e Adriana Faranda, ex brigatista che partecipò al suo sequestro, ci aveva colto davvero impreparati. Ma come diavolo si fa a mettere insieme "Vittima" e "Carnefice"? Quale dialogo ci potrà mai essere tra due donne unite da un fatto di cronaca tra i più raccapriccianti della storia del nostro paese? E invece? Il dialogo c'è stato eccome. Nessuna sbavatura. Nessuna stonatura. Tante parole con il loro giusto significato temporale, o, come ha giustamente sottolineato il Padre gesuita Guido Bertagna, che insieme al criminologo Adolfo Ceratti e alla giurista Claudia Mazzucato ha lavorato all'elaborazione di un progetto di "giustizia riparativa" e pure scritto un libro (Il libro dell'incontro), "Le parole han bisogno dell'ascolto per essere comprese in profondità. Nel silenzio la parola prende senso e forza..".
Ad ascoltarle (le parole), l'altra sera, sono accorsi in centinaia. Stesso film al mattino con più di 400 studenti.
Ed è sull'ascolto che in tutti questi anni, dal 2008 in avanti, si sono concentrate Agnese e Adriana insieme ad un gruppo formatosi tra Milano e Roma. Si sono ascoltate come mai nessuno era stato ad ascoltarle fino a quel momento, con la consapevolezza che né i processi né i dibattiti mediatici del conflitto erano riusciti a sanare la ferita delle vittime, dei famigliari delle vittime e dei responsabili della lotta armata.
Da sinistra Adriana Faranda, Agnese Moro e il Padre gesuita Giuido Bertagna
"Perchè una persone che come me dalla giustizia ha avuto tutto dopo tanti anni ha ritenuto di dover cercare qualche altra cosa? - s'è interrogata Agnese - La giustizia individua le persone che stavano sbagliando, le ferma, le giudica e su ciò che è avvenuto dà delle sentenze ... Ma sapere di uno che sta in prigione non mi fa stare bene ...".
La verità è che quella sentenza non ha risolto il suo problema. Il dolore della perdita del padre trascinatosi negli anni, nelle notti insonni, nei silenzi, nei vuoti di un'esistenza che pure, e almeno all'apparenza, stava vivendo come una "persona qualunque" con la famiglia e i figli. Dentro il suo cuore la sofferenza di chi non era riuscita a fare nulla per salvarlo (e lei fece anche più di quanto umanamente si potesse chiedere ad una ragazza di 25 anni). Davanti agli occhi, tutti i giorni, gli ostacoli di quei tragici momenti, di quelli che si erano girati da un'altra parte, la rabbia, l'orrore per la morte degli uomini della scorta e un vita che dall'oggi al domani era cambiata per sempre...
"Questa è una giustizia che ristabilisce cos'è giusto e cos'è sbagliato ma per quelle persone che sono state danneggiate non dice assolutamente nulla... - ha insistito Agnese in un monologo davvero profondo - Ho fatto una vita normalissima, ma sempre appesa a quei 50 giorni, come ad un elastico che mi riportava a quel momento... Congelata. Come un insetto chiuso in una goccia d'ambra...".
Quando le arrivò la proposta di parlare con gli "altri" d'istinto disse di "no", per paura di offendere la famiglia, i tre figli, di rompere i legami di amicizia con persone che avevano vissuto le sue stesse vicende.
Epperò qualcosa in cuor suo le stava suggerendo di accettare. Era la prima volta, dopo 31 anni, che qualcuno si stava interessando del suo dolore. Nessuno le aveva mai chiesto: tu come stai? E stavolta stava succedendo... Qualcuno voleva dare delle parole ad un dolore muto, il suo.
"Mi sembrava una cosa talmente strana e fuori posto - ammette - E poi li ho incontrati. Ho incontrato Franco Bonisoli (ex terrorista, ndr) e non ho visto una mostro ma una persona che non aveva perduto la sua umanità. E dopo di lui ho incontrato altre persone .... Ho imparato a disarmarmi"
E con il meccanismo potente dell'incontro, il passato non era più il presente e nelle foto del padre spariscono le macchie di sangue.
"Adriana (Faranda) non mi deve niente. Si è fatta i suoi anni di galera. A nessuno di noi deve niente. Ha pagato tutto quel che doveva pagare - ha concluso Agnese - Ho incontrato il suo dolore che è peggiore del mio. E' il dolore di chi ha fatto cose irreparabili pensando di salvare il mondo e aiutare i poveri ma oggi si ritrova in un mondo in cui le cose non sono cambiate e con delle persone che sono morte...".
Di sé stessa ha parlato anche Adriana Faranda, oggi donna libera, che ha saldato il suo conto con la giustizia, ma che libera non si sente. Anche lei ha continuato a chiedersi il perché si è ritrovata lì, quel giorno, in quel momento... Perchè lei e non un'altra. Perchè lei e non invece la vicina di banco all'Università ... "Le risposte che mi sono data non mi sono mai bastate...".
Solo una cosa è chiara per l'ex brigatista, oggi, e sono le conseguenze prodotte da quelle scelte. Pur continuando a sostenere che questo mondo non le piace che "vada migliorato", ha capito fin troppo bene che non è con le armi che lo si può cambiare ("è la scorciatoia peggiore...").
"Ho scelto di ritornare lì dove tutto era partito. Così com'è irrimediabile togliere la vita ad un persona è irrimediabile togliere alla persone una persona cara - ha sintetizzato - La giustizia riparativa dà voce al nostro dolore e al dispiacere..."
E sul lato umano dei carnefici. Sul loro essere "persone" non ha dubbi Armando Michelizza, Volontario con la "V" maiuscola dell'associazione volontari penitenziari, uno degli organizzatori della giornata.
Armando Michelizza
"Noi volontari andiamo in carcere. Cosa ci andiamo a fare? Andiamo a trovare persone. Sono 37 anni che ci vado e abbiamo incontrato sempre e solo persone. Perchè ci andiamo? Perchè a noi piace la costituzione che è un vademecum per vivere bene, insieme. La costituzione promette a chi è in carcere che non sarà abbandonato, che la società non vuole fare a meno di lui, che gli darà un' occasione per crescere. Purtroppo nelle nostre carceri non succede spesso e non succede a tutti e questo si ripercuote nella recidiva che è altissima. Ogni reato provoca uno sbrego (come si direbbe in Veneto). Si rompe qualcosa e allora c'è il problema di tentare di ricucire almeno in parte quella frattura...".
La lotta armata, le stragi, i libri, i film, le inchieste hanno dimostrato non tanto un persistente desiderio di sapere, ma anche e soprattutto un bisogno insopprimibile di capire, di fare i conti con quel periodo, fra i più bui della nostra storia recente. Ci hanno provato Agnese e Adriana. Ci ha provato l'Associazione volontari del carcere. Ci hanno provato in tanti e in tanti sono stati mossi dal desiderio di conoscerle. In tanti, ma nessuno della maggioranza di centrodestra che governa la città.
"A conclusione di questa giornata - commenta la consigliera comunale Gabriella Colosso che ha collaborato all'iniziativa - mi sento di ribadire che mi dispiace per chi non ha voluto patrocinare tali incontri mettendo al centro dell’attenzione, soltanto il nome di chi ha commesso il reato, disconoscendone così pregiudizialmente il percorso riparativo che ha fatto insieme a lei, la vittima. L’incontro di stamattina e di stasera sono stati il cuore di un percorso di giustizia riparativa, di cui una amministrazione se ne dovrebbe occupare o quanto meno conoscere. Mi sembra che con l’assenza della amministrazione si sia evidenziata l'incapacità di comprendere ciò che queste 2 donne stanno vivendo e che vogliono trasmettere: che la memoria, quella “pubblica" deve avvallarsi del racconto e dell’ascolto delle diverse memorie. Ciò non vuol dire essere d'accordo, ma apre spazi di confronto, far prendere consapevolezza delle vie della violenza, farle conoscere e riconoscere e così, forse, prevenirne le tragiche conseguenze...
Aldo Moro è stato rapito la mattina del 16 marzo 1978. Il nuovo governo guidato da Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia. Proprio quel giorno, l'auto che trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati fu bloccata in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse. I brigatisti uccisero i due carabinieri a bordo dell'auto di Moro (Oreste Leonardi e Domenico Ricci) e i tre poliziotti che viaggiavano sull'auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi). Nel gruppo dei sequestratori: Adriana Farando, Mario Moretti, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, Germano Maccari e Barbara Balzerani).
La notizia dell'agguato si diffuse subito e sconvolse il Paese. Diverse attività quotidiane furono immediatamente sospese. I negozi chiusero, gli studenti delle scuole uscirono dalle aule e si riunirono in assemblee. In tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche andarono in onda notiziari in edizione straordinaria. L'agguato e il rapimento furono rivendicati alle ore 10:10 con una telefonata di Valerio Morucci all'agenzia ANSA: "Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse".
Il 9 maggio, dopo 55 giorni di detenzione, il presidente di Democrazia Cristiana viene assassinato per mano di Mario Moretti, con la complicità di Germano Maccari. Il cadavere fu ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in via Michelangelo Caetani, in pieno centro a Roma.
Dopo oltre dieci anni alcuni brigatisti raccontarono che Aldo Moro fu fatto alzare alle 6:00 del mattino con la scusa di essere trasferito in un altro covo. Franco Bonisoli invece raccontò che fu fatto credere al politico di esser stato graziato. La bugia gli fu detta per "non farlo soffrire inutilmente". Venne poi infilato in una cesta di vimini e portato nel garage del covo di via Montalcini. Fu fatto entrare nel portabagagli di una vettura rubata alcuni mesi prima, una Renault 4 rossa. Venne poi coperto con un lenzuolo rosso. A quel punto Mario Moretti sparò alcuni colpi con una pistola Walther PPK calibro 9 mm x 17 corto. L'arma però si inceppò e Moretti usò una mitragliatrice Samopal Vzor.61. Con questa sparò 11 colpi che perforarono i polmoni di Moro uccidendolo.
Nella foto Adriana Faranda e Valerio Morucci
Fu tra i componenti della colonna romana e agì come "postina". Nel gennaio del 1979 per dissensi interni, decise d'abbandonare l'organizzazione lottarmatista: assieme a Valerio Morucci si era opposta strenuamente all'omicidio el presidente della DC, ma alla fine accettò la decisione del gruppo per principio di disciplina interno. Una volta fuoriusciti dalle BR, i due tentarono di creare, assieme ad altri, una nuova formazione di lotta armata, il Movimento Comunista Rivoluzionario (MCR).
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