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22 Luglio 2023 - 10:18
«La Stampa» del 26 luglio 1943 dà l’annunc io delle dimissioni di Benito Mussolini
Sono trascorsi ottant’anni da quel 25 luglio 1943, quando le stazioni radiofoniche dell’Eiar trasmisero un laconico comunicato: «Sua Maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, di Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini...». La voce dell’annunciatore echeggiò nelle città e nei paesi sfigurati dai bombardamenti aerei, fra una popolazione ridotta allo stremo da una guerra sciagurata, chiaramente perduta. E subito esplose la gioia popolare. Per il fascismo si apriva la fase delle ultime febbrili convulsioni.
Su quell’episodio cruciale della storia d’Italia si continua a discutere. Nel 2018 Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice e storico di fama internazionale, ha pubblicato un interessante saggio che cerca di rispondere ad alcuni interrogativi. I gerarchi fascisti volevano davvero estromettere Mussolini? Pensavano di porre fine al Regime per salvare la patria? Furono traditori? Il Duce si era rassegnato alla sconfitta non solo militare, ma politica? Desiderava uscire di scena, come un attore che, applaudito per venti anni, alla fine viene fischiato per aver perso la guerra?
Anche a Torino e un po’ in tutto il Piemonte, nella tarda serata del 25 luglio, il silenzio fu rotto da canti, clamori e grida di esultanza. Molti si convinsero che la caduta del fascismo equivalesse automaticamente alla fine del conflitto e di tutto ciò che esso aveva significato nel corso di tre lunghi anni. Purtroppo si sbagliavano.
Così appariva Settimo Torinese nel 1943
Il caso di Settimo Torinese è emblematico e degno di studio. La gente del luogo non fu da meno degli altri italiani nel liberarsi in fretta delle uniformi e dei distintivi fascisti. Poi passò alla distruzione sistematica dei simboli fascisti che il Regime aveva disseminato un po’ dappertutto, cancellando le iscrizioni murali che inneggiavano al Duce, scalpellando i fasci littori dalla facciata del municipio e dell’edificio scolastico. Gli uffici del Fascio di combattimento, all’interno dell’ex Casa del popolo, e le sedi delle associazioni e dei sindacati fascisti furono devastati. Suppellettili, libri, gagliardetti e interi archivi vennero dati alle fiamme con vandalico furore da una folla scopertasi improvvisamente antifascista.
Dall’Archivio storico del Comune non sono finora emersi documenti significativi di quei giorni cruciali. È certo che non mancarono scene indecorose di voltafaccia politici a opera di non pochi che avevano inneggiato al fascismo trionfante, mendicando onori e privilegi presso i gerarchi locali. Rispettati e temuti sino al giorno prima, questi ultimi si dileguarono in tutta fretta. Giustamente è stato detto che la caduta del Regime e la pace apparivano come un’equazione ovvia che scuoteva l’atmosfera greve di stanchezza e di sfiducia.
Il 26 luglio, un secondo proclama del maresciallo Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, invitò gli italiani alla calma e proibì gli assembramenti..
Il 26 luglio, un secondo proclama del maresciallo Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, invitò gli italiani alla calma e proibì gli assembramenti. Lo stesso giorno fu ordinato il coprifuoco dal tramonto all’alba, con divieto di circolazione per i civili, chiusura dei pubblici esercizi, decadenza dei permessi di porto d’armi e così via. Annotò Lucia Cravero, direttrice della colonia elioterapica «Luigi Origlia» di Settimo: «In seguito a sopravvenuti disordini, la colonia oggi ha dovuto chiudere i battenti. Ai bambini, prima dell’uscita, è stata distribuita la consueta loro razione di pane e frutta. La colonia si aprirà non appena tutto sarà tornato alla normalità».
Il 30 luglio, spentasi l’eco delle manifestazioni di piazza, il podestà Aldo Barberis, in carica dal 1936, tornò all’attività deliberativa, con l’assistenza del segretario comunale Fulvio Ferraris, come se nulla fosse accaduto. D’altronde, il 25 luglio era crollato il fascismo, ma non lo Stato fascista e le sue strutture portanti: il re Vittorio Emanuele III e Badoglio miravano alla salvaguardia dell’ordine istituzionale, politico e sociale, attraverso un blocco omogeneo che si reggesse sull’esercito, comprendendo la classe dirigente del Ventennio, epurata delle frange più compromesse e rinfoltita con vecchi esponenti liberali di sicura vocazione conservatrice. Naturalmente dai verbali di Barberis scomparve il riferimento all’era fascista.
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