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22 Luglio 2023 - 09:57
Vescovo d’Ivrea dal 1966 al 1999, ai vertici di Pax Cristi dal 1968 al 1985 (dapprima presidente nazionale, poi internazionale), monsignor Luigi Bettazzi era seguito con attenzione anche fuori della propria diocesi, soprattutto nel Torinese.
A Venaria e Borgaro, per esempio, oppure a Brandizzo (paese legatissimo a Chivasso, città che dipende ecclesiasticamente da Ivrea) e a Settimo, uno fra i più importanti centri operai del Piemonte. Nei quattro comuni, il Partito comunista italiano godeva allora di un consenso molto ampio: a Brandizzo e a Venaria, alle elezioni politiche del 20 e 21 giugno 1976, aveva rispettivamente ottenuto il 47 e il 50 per cento dei voti, a Borgaro il 48, a Settimo era riuscito a superare il 51. In alcune località limitrofe, il sostegno ai comunisti era diffuso, ma un po’ meno netto: oscillava dal 34-35 per cento di Castiglione, Volpiano e San Raffaele Cimena al 38 di Ciriè, al 40 di Volpiano e al 42 di Caselle.
Fra conservazione e fughe in avanti
Nella vasta arcidiocesi di Torino, quando monsignor Bettazzi giunse a Ivrea, stavano emergendo e radicalizzandosi problemi del tutto nuovi. Cominciava il periodo delle proteste studentesche e delle grandi lotte operaie. La situazione non era comparabile con quella eporediese dove lo sviluppo dell’industria e, conseguentemente, il livello di malessere sociale, economico e politico non raggiungeva le punte del capoluogo subalpino e di alcune zone del Torinese. In entrambe le diocesi, tuttavia, sull’onda degli entusiasmi suscitati dal Concilio Vaticano II che si era chiuso nel dicembre 1965, emergevano forti spinte al cambiamento nella Chiesa. Si estendeva il desiderio di un confronto culturale fra cattolici e marxisti che andasse al di là di qualche concessione dialettica. Sulla cattedra di San Massimo, dal 1965, sedeva il cardinale Michele Pellegrino, il quale condividerà con monsignor Luigi Bettazzi l’improprio e facilone appellativo di «vescovo rosso».
Non poche parrocchie della diocesi di Torino erano affidate a sacerdoti dal carattere adamantino, rigidamente fedeli alla propria missione pastorale e assai poco sensibili alle «sirene» comuniste. Fra gli altri, don Luigi Manassero a Brandizzo (1967-2004); don Silvino Bertasi alla Piana di San Raffaele (1967-1976); don Angelo Sapei a Mezzi Po (1967-1983); don Ferdinando Miniotti a Caselle (San Giovanni Evangelista, 1941-1985); don Severino Marzano a San Raffaele (1956-1986). A Settimo, don Giacomo Rovera (Santa Maria, 1965-2004) e don Lorenzo Osella (San Giuseppe Artigiano, 1968-1993). Sempre a Settimo, il canonico Guglielmo Pistone (San Pietro, 1963-1987), il sacerdote più colto e autorevole, disponibile al dialogo con tutti, ma alieno da ogni forma di ambiguità, cedimento o sudditanza nei confronti della sinistra. Ciò non significa, ben inteso, che larga parte del clero diocesano di Torino fosse refrattaria a tutti i mutamenti auspicati dal Concilio. È significativo che don Manassero avesse fatto riprodurre una frase di Giovanni XXIII nel nuovo oratorio di Brandizzo: «Senza un po’ di santa follia, la Chiesa non allarga i suoi padiglioni».
Il confronto con i marxisti
Di monsignor Luigi Bettazzi stuzzicavano ma anche impensierivano e contrariavano le posizioni ritenute eccessivamente dialoganti verso la sinistra marxista. La lettera che egli inviò a Enrico Berlinguer nel luglio 1976 fu all’origine d’infinite dispute. Altrettante ne suscitò la risposta del segretario comunista, oltre un anno dopo. Più che al vescovo d’Ivrea, parve che quest’ultimo si fosse rivolto all’intero episcopato italiano, al mondo cattolico nel suo insieme e, forse, alla Santa Sede.
«Aggiornamenti sociali», la prestigiosa rivista dei gesuiti, fece osservare che erano possibili tre differenti «approcci» al documento di Berlinguer. Il primo di tipo «riduttivo» e «polemico», interpretabile come una chiusura aprioristica e totale al dialogo. Di natura «garantista», il secondo prendeva atto che qualcosa si muoveva nel monolitico Pci, però l’evoluzione del partito era giudicata insufficiente per quanto concerneva soprattutto il dogmatismo ideologico, il cui abbandono avrebbe richiesto il rispetto del pluralismo democratico, il disconoscimento delle principali tesi marxiste e un’inequivocabile rottura con l’Unione Sovietica. A tanto erano disposti i comunisti italiani? Pur senza sottovalutare le perduranti incompatibilità fra la concezione cristiana dell’uomo e taluni aspetti non secondari della teoria e della pratica marxiste, il terzo atteggiamento riconosceva la sincerità del processo di revisione ideologica nel Pci. Era, insomma, un giudizio interlocutorio che ignorava i «timori legati a esperienze passate», mostrandosi «sensibile ai fermenti operanti nel presente» e «aperto a una ragionevole speranza per il futuro, [...] fiducioso nell’uomo e nella sua connaturale capacità di aprirsi alla verità e al bene».
Il Cardinale Michele Pellegrino
Così, per molti versi, ragionava anche il cardinale Michele Pellegrino che reggerà l’arcidiocesi di Torino sino al 1977, mentre monsignor Bettazzi era vescovo a Ivrea. Fin dall’agosto 1975, durante il tradizionale convegno di studio e di aggiornamento per sacerdoti e laici nel santuario di Sant’Ignazio, sopra Pessinetto, il cardinale aveva voluto chiarire che la collaborazione coi marxisti era «legittima» e «doverosa» per quanto atteneva alla promozione umana, ma «qualsiasi cedimento all’ideologia atea e materialistica» andava respinto perché «incompatibile con la fede cristiana».
L’esperienza dei preti operai
Nei medesimi anni, alcune zone del Torinese, specie quella di Settimo, si caratterizzarono per l’effervescente e poliedrica attività dei preti operai. Don Antonio Revelli, «un ragazzo della via Gluck», come amava definirsi, essendo nato in una casa ai margini della campagna che si stava urbanizzando, fu vicecurato dal 1964 al 1967 nella storica parrocchia di San Pietro in Vincoli, a Settimo, col canonico Pistone. Nel 1965 celebrò la Messa fra i lavoratori dello stabilimento Giovannetti, occupato da una dozzina di giorni. In seguito, il cardinale Pellegrino lo autorizzò a cercarsi un’occupazione manuale. Fra il 1974 e il 1979 lavorò per l’impresa edile Delsedime di Settimo.
Nella stessa città, l’arcivescovo inviò don Gianni Mondino, originario di Cervere (Cuneo), con l’incarico di vicecurato a San Giuseppe Artigiano e di responsabile del periferico Villaggio Olimpia. Di lì a breve, terminato il servizio parrocchiale, si trasferì in un alloggio del quartiere San Gallo, con don Antonio Revelli e il seminarista operaio Tino Gigliotti. Nella primavera del 1979, senza dichiarare il proprio status di prete, ebbe un posto da netturbino presso l’Azienda servizi municipalizzati. Dopo un paio d’anni, in seguito a concorso interno, passò a condurre i mezzi pesanti, ma fu anche rappresentante sindacale. «Non nego – ammetterà – che mi dava a volte fastidio la lettura, che a me sembrava troppo ideologica, del ruolo dei preti operai nella comunità cristiana, e poi non condividevo […] la quasi opposizione di certe persone nei confronti dei vescovi e della Chiesa in genere».
Nato a Santena nel 1940, don Silvio Caretto, lavoratore della Dea (Digital Electronics Applications) di Moncalieri, divenne parroco di Mezzi Po e responsabile del Villaggio Olimpia nel 1986. Al cardinale Pellegrino, nel frattempo, era subentrato il cardinale Anastasio Ballestrero, genovese, carmelitano scalzo. Subito don Caretto volle precisare: «Non sarò amico solo di chi è di chiesa. Avrò amicizie fuori dal giro, fuori dai “nostri”. Ho imparato a stimare la gente non di chiesa alla stessa maniera di quella di chiesa».
Nel frattempo, a Chivasso, un altro prete operaio, padre Aldo D’Ottavio, missionario oblato di Maria Immacolata e delegato sindacale, veniva messo fuori dalla Lancia per alcune incaute frasi malevolmente scambiate per apologia del terrorismo rosso. In precedenza, D’Ottavio aveva lavorato in una tipografia di Torino e in un’officina di Borgaro. Era il 1981. Al suo fianco, fra gli altri, si schierarono il vescovo d’Ivrea, il suo vicario generale Arrigo Miglio (che succederà a Bettazzi nel 1999 e riceverà la porpora cardinalizia nel 2022) e il canavesano Pietro Giachetti, vescovo di Pinerolo. Dopo sette udienze presso la Pretura di Chivasso, la direzione della Lancia accetterà di reintegrare padre D’Ottavio, però lo trasferirà in un magazzino della Fiat, il «Gino Lisa» di Moncalieri.
Pietro Giachetti, già vescovo di Pinerolo
Toccò a don Caretto balzare agli onori delle cronache nazionali a motivo della sua partecipazione al congresso della sezione comunista di Settimo, il 3 febbraio 1989. I tempi stavano inesorabilmente cambiando. Al culmine di una lacerante crisi interna, dopo la sostituzione della vecchia dirigenza con un gruppo di giovani rampanti, il partito aveva subito una pesante batosta alle elezioni amministrative del 1985. Nel dicembre di due anni prima, le forze di pentapartito (socialisti, democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) erano riusciti a mandarlo in minoranza, chiudendo definitivamente il lungo periodo delle giunte rosse.
Sollecitato dal segretario della sezione, don Silvio Caretto non declinò l’invito. Quella sera di febbraio, ad accoglierlo fra le bandiere con la falce e il martello, vi erano ben centocinquanta persone plaudenti. E fu subito scandalo. In realtà, il parroco operaio non tenne alcun discorso sconveniente. «Ai comunisti – si giustificò – ho detto come, secondo me, debbano analizzare meglio il mondo religioso, senza cercare incontri soltanto col dissenso, cercando di non ridurre tutto a un piano politico che individua anche nella tonaca una sigla di partito».
Pellegrino e Bettazzi, due vescovi carismatici
Nei giorni scorsi, alcuni hanno accostato la figura dell’eporediese Luigi Bettazzi a quella del torinese Michele Pellegrino. Il che è forse un po’ semplicistico e arbitrario. Personaggi carismatici, entrambi hanno attraversato il secolo delle ideologie. Furono vescovi del dialogo, innovatori e scomodi, assai sensibili al problema della evangelizzazione nel mondo contemporaneo: sognavano una Chiesa povera per i poveri, come si esprimerà papa Francesco nel 2013, e guardavano al futuro con ottimismo, condividendo le gioie e le tribolazioni della società. Ma sarà la ricerca storica, senza facili entusiasmi né astiose demonizzazioni, a fare luce sulle affinità e le differenze, le analogie e i dissapori, le consonanze e le diversità fra i due grandi vescovi.
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