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Lo Stiletto di Clio

Boschi e selve a Settimo

La storia dimenticata di Settimo Torinese: un territorio un tempo ricco di selve e boschi, oggi trasformato dall'agricoltura e dal disboscamento.

Nel 1836, a Settimo, l'estensione dei boschi sfiorava ancora i 500 ettari

Nel 1836, a Settimo, l'estensione dei boschi sfiorava ancora i 500 ettari

Nessuno ne ha memoria diretta, eppure è storia dell’altro ieri o poco più. Settimo Torinese fu un territorio non solo di campi fertili e acque limpide, ma anche di selve e boschi.

Il che, di questi tempi, sembra avere dell’incredibile.
Molto significativi in proposito sono alcuni toponimi riportati in documenti quattrocenteschi. «Ad Cerrum», ad esempio (il cerro è una specie di quercia), oppure «ad Vernam» (dal piemontese «verna», cioè ontano) e «ad Fraschetum» (boschetto di cespugli). Gli statuti medioevali del Comune menzionano il bosco di Cantababbio, lungo la riva del Po, verso il confine con San Mauro. Folte selve fiancheggiavano le strade di Brandizzo e Volpiano. Per ben ottocento giornate si estendeva il cosiddetto «Bosco del Signore», nella prima metà del Quattrocento.

Nei primi anni Sessanta del XX secolo, il rio Freidano attraversa le superstiti aree boschive presso la cascina San Giorgio

Nei primi anni Sessanta del XX secolo, il rio Freidano attraversa le superstiti aree boschive presso la cascina San Giorgio

Una lenta ma sistematica opera di deforestazione ebbe inizio dopo la pestilenza e le vicende belliche che segnarono la prima metà del diciassettesimo secolo, allorché nuove terre furono messe a coltura. Ciononostante l’estensione delle selve sfiorava ancora i cinquecento ettari nel 1836, contro i circa duemila delle terre coltivabili e i poco meno di trecento dei gerbidi.
«L’agro – ebbe modo di rilevare il corografo Antonino Bertolotti nel 1872 – per un quarto è lasciato a querceti cedui». Mentre gli incolti erano destinati al pascolo degli animali, i boschi fornivano travi e tavole tanto per l’edilizia quanto per le falegnamerie, nonché legna da ardere. Ma la produzione di legname non bastava a soddisfare le necessità locali.

«Il bosco da costruzione non si trova il necessario; i minusieri sono costretti ricorrere dai paesi lontani e vicini, massime la scarsità del bosco di roveri», chiarisce un «Rapporto statistico» del 1822. Solo la legna da ardere eccedeva il fabbisogno dei settimesi. «I cedui e le fustaie – puntualizzò la giunta del sindaco Giovanni Antoniotti nel 1885 – sono in generale di essenze forti (querce), ad eccezione dei boschi che esistono nei terreni alluvionali presso il Po dove predominano le essenze dolci (pioppi, ontani, ecc.)».

Dei grandi disboscamenti ottocenteschi, gli amministratori del 1885 davano un giudizio negativo. «Purtroppo – scrissero – sono scarsissimi i boschi cedui e le fustaie, essendone stati distrutti per soverchie facilità con cui lo si concedeva ed in ultimo per la legge in vigore che tolse malauguratamente ogni vincolo sui boschi di pianura […] che esistevano in principio di questo secolo».

«Il disboscamento quale mezzo di messa a coltura del terreno agrario – rilevava Pier Luigi Ghisleni, presidente della torinese Accademia di Agricoltura – era in generale sconsigliato dai tecnici ed inviso agli agricoltori più evoluti perché molto si temevano i danni che ad esso si potevano collegare». «Poiché la pioppicoltura non era ancora nota nei suoi sviluppi industriali», il taglio dei boschi – osserva lo stesso Ghisleni – era «sempre e solamente effettuato per rendere il terreno atto ad ospitare piante erbacee».

Su tali aree, ridotte «in tristi arativi, […] il povero contadino» consumava «inutilmente denaro e fatiche», denunciarono i civici amministratori settimesi nel 1884. «L’umidità relativa – fecero notare – pare accresciuta dopo l’importante dissodamento dei boschi […] dal 1850 in poi». «A questo fatto – aggiunsero – alcuni attribuiscono i malanni che affliggono l’agricoltura e […] danneggiano lo stato sanitario, ritenendo dannosa la soppressione di tali importanti serbatoi d’umidità quali erano i folti boschi esistenti in questo territorio come in quello degli altri comuni».
Quante storie si serbano nella pianura bagnata dal Po!

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