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Settimo Torinese
20 Aprile 2023 - 16:51
Partigiani in festa
Introdotta nel 1946 da un decreto del principe Umberto di Savoia, allora luogotenente generale del Regno d’Italia, e istituzionalizzata tre anni più tardi, la festa della Liberazione è una ricorrenza importante. Il 25 aprile 1945, infatti, non segnò soltanto la fine della Repubblica sociale, costituitasi all’indomani dell’armistizio e in tutto asservita alla Germania nazista.
Fu un giorno «fatidico», come l’ha definito il presidente Sergio Mattarella, perché si uscì da una sanguinosa guerra civile e, più in generale, da un conflitto scatenato per una funesta volontà di sopraffazione e di dominio. Quel 25 aprile di settantotto anni fa, gli italiani si scoprirono liberi e cominciarono a immaginare un futuro nella pace e nella concordia.
Diversamente da ciò che alcuni affermano in maniera avventata, la festa della Liberazione non è affatto il simbolo di una guerra fratricida.
Al contrario, ci richiama all’epilogo di una lunga e triste storia, culminata col definitivo crollo della dittatura fascista quale premessa per la nascita di un nuovo Stato nella cui Costituzione, fra i principi fondamentali, si precisa che sono riconosciuti e garantiti «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».
Nel ventennio che precedette il 25 aprile 1945, l’Italia aveva smesso di essere una nazione democratica: il potere si concentrava nelle mani di un solo uomo, il Duce ossia il condottiero, il capo per antonomasia; gli oppositori venivano sistematicamente perseguitati; non esisteva né pluralismo politico né libertà di stampa; ai cittadini non era riconosciuta la facoltà di scegliere i propri rappresentanti e neppure di dissentire. Per contro vigeva un’infelice legislazione antiebraica (le leggi razziali).
Ricorrenza simbolica del desiderio di pace, libertà, giustizia e partecipazione, la festa del 25 aprile dovrebbe essere più che mai attuale se tali valori, la cui rilevanza è rimarcata dalla Costituzione repubblicana, sono ancora in grado di sviluppare quella grande forza attrattiva che un tempo li contraddistingueva. E allora perché il 25 aprile, invece di riportarci alle origini della nostra democrazia, si rivela, ogni anno, fonte di stucchevoli quanto sterili polemiche? Perché finiscono immancabilmente per prevalere quelle discordie ideologiche che le forze politiche antifasciste erano riuscite ad accantonare durante la Resistenza, benché divise sull’avvenire della nuova Italia, prefiggendosi l’obiettivo comune della liberazione dai tedeschi e dai loro alleati? Perché si tende a rivedere ingiustificatamente il giudizio negativo sul Regime? Perché si continua ad affibbiare l’appellativo «fascista» agli avversari politici al solo scopo di demonizzarli, prescindendo dall’esperienza storica del Ventennio?
Il guaio è che nessuno degli attuali partiti ha radici nella Resistenza, a differenza di quelli della cosiddetta prima Repubblica. Si aggiunga che il silenzio sulle responsabilità individuali e collettive nei confronti dei crimini fascisti (si pensi, ad esempio, alle efferatezze della guerra d’Etiopia e alle connivenze nelle stragi naziste, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto) favorisce, non da oggi, ambigui sentimenti d’indulgenza verso il Regime. Ne consegue che il passato serve soltanto ad assolutizzare i conflitti del presente, rendendo impossibile il loro superamento, mentre la maggioranza degli italiani ignora – o finge d’ignorare – le vere radici storiche della nostra libertà. Si spiega così perché i partiti, più o meno forti dei consensi elettorali, si mostrano indifferenti, nella migliore delle ipotesi, quando non decisamente contrari, a celebrare la festa della Liberazione. Perché non trasformarla nella giornata della concordia nazionale o delle vittime di tutte le guerre (e anche dei morti di Covid-19)? Si tratta di proposte recentemente avanzate.
Negli ultimi decenni, gli studiosi hanno proposto una più autentica lettura della lotta di liberazione, spazzando via ogni retaggio apologetico e mitologico, ponendo in luce i limiti, gli errori, le ipocrisie e anche la brutalità del movimento partigiano. Però hanno pure riconfermato il valore innegabile della scelta resistenziale, di cui il 25 aprile costituisce il punto di arrivo. C’è da domandarsi quale atteggiamento avrebbero assunto gli Alleati nei riguardi dell’Italia sconfitta, corresponsabile di una guerra di aggressione, senza il contributo dei partigiani, dei militari che si rifiutarono di aderire alla repubblica di Mussolini e dei soldati delle ricostituite Forze armate che risalirono la penisola, combattendo a fianco degli angloamericani?
In foto Silvio Bertotto, presidente ANPI di Settimo
Che fare, dunque, a quasi settant’anni dal 25 aprile 1945? Non trascorrerà molto tempo che la Resistenza sarà relegata in poche paginette dei manuali scolastici e nelle targhe all’angolo delle strade (e forse qualcuno proporrà di modificarle perché obsolete). La Resistenza non emozionerà più, come già è avvenuto per il Risorgimento che tante passioni suscitava sino a tempi non troppo lontani. Chi erano i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera? E i Martiri di Belfiore? E Federico Confalonieri, Aurelio Saffi, Luciano Manara e Piero Maroncelli? L’oblio avanza inesorabilmente e nessuno può fermarsi «al limitar di Dite», per dirla con Ugo Foscolo.
È vero, tuttavia, che la ricorrenza del 25 aprile racchiude un patrimonio di valori che, trascendendo il tempo, dovrebbero essere largamente condivisi, senza alimentare strumentalizzazioni e conflitti ideologici.
D’altro canto, com’è possibile ritenere d’imporsi con le polemiche di parte e con la retorica violentemente antagonistica? Se si riuscirà a scindere la ricorrenza dalla politica contingente, rinunciando altresì alla vuota enfasi celebrativa, forse saremo ancora in tempo per salvare il 25 aprile.
Torino, 6 maggio 1945. Sfilata della liberazione in piazza Vittorio Veneto
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