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04 Febbraio 2023 - 09:46
Vetraio a Parigi
«Oh, vedrié! Oh, vedrié!» era il richiamo dolcemente ritmato del vetraio itinerante, un uomo libero, senza padroni né orari a cui attenersi in modo rigido. La sua scelta professionale si fondava non solo sul bisogno economico, ma anche su un forte spirito d’indipendenza. Per esercitare l’attività non occorrevano capitali e nemmeno costose attrezzature; per contro i guadagni erano più che discreti.
Nel suo perenne girovagare a piedi o in bicicletta, il vetraio recava sulle spalle la cosiddetta «crava» (capra), una rastrelliera in legno di tiglio che serviva a trasportare le lastre di vetro, solitamente definite «feuje» (foglie). Alla base della «crava» si trovava uno stipetto dove venivano riposti gli attrezzi del mestiere: il «diamante» per tagliare il vetro, una serie di cacciaviti e di coltelli, un paio di tenaglie e di pinze, un metro pieghevole e qualche spatola per stendere il mastice. Quest’ultimo doveva essere impastato con cura prima dell’applicazione: all’occorrenza si poteva ammorbidirlo con olio di lino. Per tagliare le lastre di maggior spessore, il vetraio si serviva solitamente di una rotella d’acciaio, mentre per i fori circolari utilizzava una sorta di compasso munito di ventosa.
Fra i vetrai circolava il detto: «La fomna e ‘l diamant a s’amprësto mai» (la moglie e il «diamante» non si prestano). Era noto, infatti, che l’utensile impugnato sempre dalla stessa persona acquisisce un particolare profilo di taglio che dipende dall’abituale inclinazione dello strumento rispetto alla lastra e dalla forza trasmessa. Di conseguenza, per non rovinare l’affilatura, era sconsigliato cedere il proprio «diamante» ad altri.
Buona parte dei vetrai itineranti proveniva dalla valle Soana, specie da Valprato e da Ronco Canavese. Il mestiere si collocava fra quelli tipici dell’emigrazione stagionale imposta dalle difficili condizioni di vita nella vallata. Umili e instancabili lavoratori, i montanari si trasformavano in arrotini, calderai («magnin»), spazzacamini, venditori di lampade a petrolio e di chincaglierie, segantini e stradini. «Vanno a esercitare in varie contrade – scriveva Costantino Nigra nel 1878 – le arti del ramajo, dell’argentiere e del fonditore di metalli, e rimpatriano a primavera, a farsi contadini e pastori in sino al nuovo autunno».
Secondo alcuni studi, non pochi abitanti della valle si trasformarono in vetrai quando la diffusione dell’alluminio nelle cucine domestiche ridusse le possibilità di lavoro dei calderai itineranti. Molti emigrarono a Parigi, ma alcuni scelsero la più vicina Torino e la pianura circostante. Per qualche tempo i valsoanini furono «magnin» e vetrai in eguale proporzione; poi il nuovo mestiere soppiantò quello più tradizionale.
Giovanissimi, i montanari della valle Soana non tardavano ad acquisire dimestichezza col vetro. Appena adolescenti, accompagnando il padre o un altro famigliare nelle sue peregrinazioni in pianura, imparavano a lavorare con metodo e scrupolo. Poi diventavano autonomi. Molti vetrai esercitarono il mestiere itinerante per tutta la vita. Altri preferirono aprire una bottega e procurarsi una clientela fissa. Il tempo delle «crave» tramontò presto.
Il ricordo dei vetrai di un tempo si conserva a Ronco Canavese, in Valle Soana, dove sorge la cappella dedicata alla Madonna della Neve. Al suo interno sono rappresentate sessantotto fiammelle di bronzo con i nomi dei contadini – soprattutto donne – e dei vetrai periti durante il lavoro, per lo più in Francia e in Svizzera.
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