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14 Aprile 2016 - 14:01
di Renato Bèttica *
L’insigne Genovesi, un italiano che, insieme con Cattaneo, Romagnoli e Ferrari, gli italiani dovrebbero conoscere e onorare più di quanto non facciano, aveva fatto conoscere la necessità di ridurre i benefici ecclesiastici, i lodi comunali e tutti i privilegi che ostacolavano il progredire dell’agricoltura piemontese. Giambattista Lorenzo Bogino, colui che introdusse la coltivazione del tabacco in Piemonte e nella Sardegna, propose a Carlo Emanuele III un progetto per la spartizione dei beni comunali: il programma medesimo che, poi, nel 1820, fu ripreso dall’amletico Carlo Alberto. Perfino De Maistre, il tradizionalista ed antirivoluzionario De Maistre, avvertiva i prìncipi ch’era tempo d’introdurre nuove riforme sociali perchè, diceva “la rivoluzione cammina, corre, precipita, e non si sa dove si fermerà.” E il marchese Gustavo Cavour, (fratello di Camillo), in un suo libello contro le idee comuniste, (uscito a Ginevra, nel 1846, due anni prima, cioè che Marx ed Engels lanciassero, da Londra, il loro manifesto), avvertiva che l’unico modo di combattere il loro sviluppo era quello di sollevare le condizioni, materiali e morali, delle classi lavoratrici, abbandonate e irrise dai signori, e di sopprimere i residui ancòra viventi nell’ordinamento feudale. E già prima di Cavour, il conte Gian Francesco Galeani-Napione e l’economista Giacomo Giovanetti avevano illuminato il governo piemontese sulle necessità di conciliare i buoni principì economici con una assennata libertà, e su quella di valorizzare i terreni secondo le moderne esigenze, contrarie ad ogni misoneismo feudale. Durante la invasione francese, (come scrisse Lanza), la grande proprietà si era frazionata, e i nuovi, numerosi, piccoli proprietari erano riusciti con il loro lavoro, ma soprattutto, a forza di econome, a entrare in possesso di quei pezzi di terra “che i loro padri lavorarono per lunga serie d’anni in qualità di servi e proletari”. Questa maggiore divisione di proprietà, se tolse il Piemonte dalla miseria, rese, però stazionaria l’agricoltura, come scriveva Ghiala, “per l’impotenza del piccolo proprietario a quelle maggiori spese che richiedono i miglioramenti dei fondi, dei bestiami, degli abituri”, e fece sorgere il problema dell’assistenza diretta dell’agricoltura, e, più tardi, quello dell’intervento dello Stato nell’azione bonificatrice delle terre. E allora Camillo Cavour, Cesare Alfieri, Vegezzi Ruscalla e Ilarione Petiti chiesere al Ministero degli Interni il permesso per istituire una Associazione Agraria che, dice ancora Chiala, mentre “si prefiggeva per fine palese l’incremento dell’agricoltura e delle arti e delle industrie a d essa attinenti, aveva per fine segreto dei suoi promotori di servire come mezzo d’unione per tenere destro il sentimento nazionale e avviare l’affetto alle libere istituzioni”, perchè Cavour sapeva che le popolazioni rurali sono la forza ed il nerbo della patria. L’Associazione Agraria fu istituita con sovrano consenso, il 25 agosto del 1842, e, due anni dopo aveva già un suo giornale (La Gazzetta dell’Associazione Agraria, in edizione italiana e francese) e 2700 soci, di cui 2051 soltanto in Piemonte. Essa servì a migliorare, tecnicamente ed economicamente, l’agricoltura piemontese, ripartendo razionalmente le colture e mettendole in rotazione, migliorando le strade e le abitazioni rurali, occupandosi dell’irrigazione, dimostrando l’utilità della fognatura tubolare nei terreni eccessivamente umidi, introducendo l’uso del guano, (Giacinto Corio scriveva che il “concime è la base dell’agricoltura”) e pubblicando importanti studi tecnici e scientifici Cavour, da parte sua, faceva delle utili applicazioni agrarie nelle 2400 giornate dei suoi possedimenti a Leri, s’interessava per la creazione di una fabbrica di zucchero, per la costruzione dei molini a vapore, di una fabbrica di prodotti chimici e per la fondazione, in Torino, di una banca di sconto per l’incremento dell’agricoltura e del commercio. E quando, per dissidi politici, dovette lasciare la Associazione, fu nominato membro della Reale Accademia di Agricoltura di Torino, alla quale, nel 1851, propose di studiare il modo di combattere la malattia dell’oidium, che, allora, infestava l’Italia, facendo svolgere delle inchieste (egli era allora Ministro dell’Agricoltura), elargendo sussidi, e, in modo particolare, favorendo la divulgazione dello zolfo nella lotta contro la nuova malattia della vite (metodo studiato nel biellese, con l’interessamento della contessa Losa di Ternengo, di Pietro Rosazza, del vescovo di Biella, mons. Losana che n’era stato direttamente informato da Garibaldi, allora a Biella, che l’aveva visto usare in Sicilia, da Gabrio Casati e dal dott. Maurizio A. Zumaglini). Nulla Cavour lasciò d’intentato per quanto riguardava l’agricoltura, per cui fece costruire la ferrovia Torino- Genova, per lo sbocco del Piemonte sul mare, e favorì il traforo del Frejus, (iniziato nel 1854). Ma il suo nome, più che altro, è legato alla creazione dell’Associazione per l’irrigazione del vercellese e a quella del Canale Cavour. Il demanio possedeva già (dal 1820), il Naviglio d’Ivrea, il Canale del Rotto e quello di Cigliano, ma nel 1824, incapace d’amministrarli, dovette darli in affitto ad appaltatori, i quali furono causa di un particolare disordine irriguo, perchè, intenti soltanto ai loro interessi, non vollero mai adottare il così detto regime della bocca tassata. Cavour per combattere le speculazioni e i danni da esse derivanti, pensò di poter affidare direttamente la gestione delle acque agli stessi agricoltori riuniti in un unico ente e con l’osservanza di un unico Statuto. Ma l’impresa era difficile, perchè, in quel tempo, non esisteva ancora nella legislazione la figura giuridica del Consorzio irriguo. Allora Cavour, formato un buon gruppo di agricoltori, fece loro riconoscere piena personalità giuridica mediante una legge speciale del 3 luglio 1853, n° 1575, con la quale si approvava anche il capitolato con cui il Demanio concedeva a tale Associazione di agricoltura l’affittamento di tutte le acque demaniali. Il concetto del Consorzio e della sua funzione economica e sociale con cui Cavour chiedeva la approvazione della legge, fu la base di ogni altra forma di consorzio. E l’ordinamento, sociale, tecnico, amministrativo, che Cavour diede all’Associazione, è ancora quello che regola oggi la ripartizione delle aqcue su uno sviluppo complessivo di 1796 km di canali. In seguito a tutto ciò, sorse per lo Stato la necessità di intervenire nelle grandi opere di bonifica e di irrigazione, con la costruzione di un grande canale, da derivarsi dal Po: progetto che, si noti, era già stato proposto nel 1633, da Padre Tommaso Bertone di Cavaglià. L’idea di questo canale sorse nel 1840, quando il geometra Francesco Rossi dimostrò la possibilità tecnica di derivare un canale dalla sinistra del Po, a valle della confluenza della Dora Baltea, presso Crescentino, e di dirigerlo al fiume Sesia, a valle dell’abitato di Oldenico. Sei anni dopo, il Governo, per interessamento dello stesso Cavour e di Ottavio Thaon di Revel, accolse la proposta di Rossi, e diede l’incarico all’ing. Noè ed all’ing. Fagnani di controllarla. Ma soltanto nel 1852, l’ing. Carlo Noè potè compilare il progetto definitivo, secondo il percorso attuale, dal Po, da Chivasso, al Ticino, a Novara. *** Durante le guerre d’indipendenza, dal 1859 al 1861, la realizzazione del canale dovette essere rimandata; e, intanto, il 6 giugno 1861, Cavour moriva. Ma la sua necessità, ormai, era una cosa indubbia: tanto che Quintino Sella e Gioachino Pepoli presentavano in Parlamento una relazione apposita, e proponevano che al canale venisse dato il nome del grante statista che più non poteva vedere realizzato il suo sogno. Dopo lunghe consultazioni, il 1° giugno 1863, alla presenta di Umberto I°, allora principe ereditario, veniva inaugurato l’inizio dei lavori, che durarono tre anni. Ma il canale era senza canali diramatori: tanto che Cattaneo lo chiamava “una pianta senza rami”. Per questo motivo, per la guerra del 1866, per nuove ed imprevedute difficoltà finanziarie, il Canale rimase inattivo per qualche anno. Nel 1868 vennero da esso derivati il Cavo Montebello, Canale consorziale di Galliate (diramatore di Vigevano), e veniva completata la sua dotazione d’acqua con la costruzione del Canale Farini, derivato dalla sponda sinistra della Dora Baltea, presso Saluggia. Nel 1870 venivano derivati il Diramatore Quintino Sella, che diede origine ai sub-diramatori di Pavia e di Mortara; e nel 1873-1874, il Canale di Lanza con il diramatore di Mellana. Oggi, sempre più sviluppatasi la rete del canale, si ha una lunghezza complessiva di canali demaniali di oltre 1500 km, con una disponibilità di aqua di 290 metri cubi al minuto secondo; ciò che consente l’irrigazione di mezzo milione di ettari di terreno e, per i salti creati lungo il suo percorso, lo sviluppo di 20 mila cavalli vapore per forza motrice. Tali benefici sono ripartiti nelle province di Vercelli, Novara, Pavia, Alessandria, Asti e Torino: e il valore patrimoniale della rete era eguagliato, nel 1939, a dun miliardo e ducento milioni di lire italiane. L’ing. Noè, per dire qualcosa di lui, fu l’ideatore, nel 1859, dell’allagamento di tutto il vercellese con l’acqua dei canali demaniali: fatto, questo, che contribuì ad arrestare la marcia degli austriai occupanti Novara e Vercelli. Di tale allagamento lasciò una dotta relazione stampata, a Torino, nel 1867. Progettò pure di allacciare le acque della Stura da Castelletto Stura e condurle nei territori di Carmagnola, Villastellone, Chieri e Moncalieri. Il suo nome, insieme con quello dell’ing. Michelotti e dell’ing. Michela resta scritto a lettere d’oro nella storia dell’irrigazione piemontese. Nel 1864, per valutare l’acqua che dal Canae di Cigliano si versava nel Naviglio di Ivrea e veniva concessa a misura alla Società d’irrigazione del vercellese, eseguì apposite esperienze con un bacino provvisorio costruito nei pressi di Santhià. Nel 1883 fu costruita la Stazione idrometrica sperimentale di Santhià che ebbe riconoscimento giuridico nel 1903 e fu la prima d’Europa. *** E passiamo, ora, a vedere, brevemente, i festeggiamenti tenutisi a Chivasso, per la posa della prima pietra del Canale Cavour, avvenuta nel 1863, e nel 1866, per la sua inagurazione. Di tali festeggiamenti esistono alcuni documenti, più curiosi che altro, con i quali credo bene chiudere questo racconto. “A Sua Maestà - Vittorio Emanuele Re d’Italia - che il primo giugno 1863 - per mano del suo primogenito - Principe Umberto - colloca con pompa solenne - la prima pietra del Canale Cavour - sulla sinistra sponda del Po - vicino alla città di Chivasso - il pubblico plaudente” è una raccolta di quattro sonetti , di anonimo, con i tipi della Tipografia Nazionale del torinese G. Biancardi. Anche per la ricorrenza della posa della prima pietra è il “canto” di C. Margary, il cui titolo (non esatto perchè parla di inaugurazione), suona Per - la solenne inaugurazione - del - Canale Cavour - onorata dall’augusta presenza - di S.A.R - il principe Umberto - ereditario della corona d’Italia - avvenuta in Chivasso - addì 1° giugno MDCCCLXIII - Omaggio - della Società degli Operai - di detta città, stampato dalla Tipografia Peregalli di Chivasso. L’altro documento, invece, riguarda, precisamente, il giorno dell’inaugurazione del Canale. Intitolato, appunto Inaugurazione del Canale Cavour in Chivasso, con i tipi del chivassese Peregalli, in data 12 aprile del 1866, questo foglio volante non è una cronaca di quanto, quel giorno accadde in Chivasso. Ne è autore un avv. Stefano Dalmazzone, Pretore in Chivasso. Il quale, letterato e storico oltre che leguleio, traduceva le sublimi liriche di Lamarine in un italiano volgare e sgrammaticato, pubblicava volumi di materie legali (dei quali non posso io giudicare) e stampava volumi di “reminiscenze storiche italiane” per vedere se Marco Tullio Cicerone, sommo oratore, fosse, pure anche, un valente poeta, o per studiare l’uso del carroccio nelel battaglie, o l’amore di Luchino Visconti per la giustizia, o il consolato presso i romani, e così di seguito: senza riuscere, mai, a mostrarsi filosofo, o storico, o letterato. E senza riusire a mostrarsi poeta, nel caso si voglia pnesare che siano suoi i sonetti A sua Maestà, presentati, più sopra come anonimi, perché non sono firmati. Ma, nella sua “cronaca” (che riporta, pure il discorso pronunciato dal sig. Sindaco, Notaio Pietro Ferreri, al Principe di Carignano) egi, mentre celebra le lodi dei canali italiani, citando Valerio Massimo e Appio Claudio Ceco e Plinio e Lesseps, e inneggia agli immensi vantaggi che, dal nuovo canale, sarebbero derivati all’agricoltura piemontese, non dimentica i minimi particolari dei fatti che caratterizzarono quella giornata, e se c’è uno scrittore nostro al quale l’avvocato Stefano Dalmazzone possa essere paragonato, questo scrittore è, senza nessun dubbio, Renato Fucini. Certo, la grandiosità del Canale Cavour meritava dei poeti e dei cronachisti di ben altra potenza. Quali, forse, furono, nell’ansia del fare, gli operai, che per tre anni di seguito, lavorarono sotto il sole la bella terra piemontese, per renderla feconda e ricca, nel momento dell’acqua fresca e generosa. *** Ma a concludere questa piccola storia un’ultima notiza va data, anche se non si può giurare sulla sua veridicià, perchè data dal fratello di Guido Gozzano, Renato, alle cui dichiarazioni è sempre difficile credere. Tra i collaboratori al progetto del Canale, vi sarebbe stato un giovane che, anche se non di Chivasso, viveva a Chivasso, membro della locale filodrammatia, nella quale lo ritroveremo più avanti. Questo giovane era l’Ing. Fausto Gozzano, che sposatosi, in seguito, nel 1877, non più giovane, in seconde nozze, con la figlia del senatore Mautino, la “piccola Duse del Canavese” sarebbe diventato nel 1883, il padre di Guido Gozzano. E la notizia, anche se non confermata e, per vari motivi, non confermabile, può, anche essere vera, se si pensa che Fausto Gozzano, ingegnere e architetto, fu, documentatamente, l’ideatore e il realizzatore della poetica della strada ferrata Chivasso-Ivrea, la “canavesana” dei nostri nostalgici ricordi (il primo viaggio, di inaugurazione, con la superba e fumante vaporiera, che portava, sritto, sul rotondo ventre, a caratteri cubitali, il nome dell’innamorata dell’ingegnere) e, in seguito, della ferrovia Ivrea Aosta.* Cronache dalla nobile Città di Chivasso (1955)
Il prof. Renato Bèttica-Giovannini, nato a Chivasso il 14 ottobre 1912 fu cronista e storiografo della nostra città, tra le molte opere pubblicate ricordiamo: "Cronache della nobile città di Chivasso " e "Cronache Mediche della nobile città di Chivasso". Il prof. Bettica, fu inoltre libero docente Universitario, membro della Deputazione Subalpina di Storia Patria e dell'Accademia S. Anselmo di Aosta. Durante la guerra fu vicecomandante del servizio di sanità della VII Divisione Autonoma Partigiani del Monferrato. Collaboratore e redattore di molti giornali e riviste mediche, fu per trent'anni segretario di redazione dell'Ospedale Maria Vittoria di Torino. Dopo la perdita della moglie, ha trascorso la sua triste vecchiaia presso il ricovero Rippa Peracca di Casalborgone, continuando ancora la sua attività, poi il lento declino fino al giorno della sua morte avvenuto il 17 marzo 1998. Ha donato la sua ricca biblioteca alla Città di Chivasso.Edicola digitale
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