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ROMANO. Assassinio nella notte di Natale. Romano Canavese, 1850

L’idea di questo articolo mi è nata domenica 20 luglio 2009, quando ho assistito, in televisione, alla visita del Santo Padre Benedetto XVI a Romano Canavese. Quando Sua Santità, a quanto riferiva un cronista, ha detto di non conoscere San Solutore, titolare con San Pietro della locale Parrocchiale, ho pensato fra me “Chissà se si ricorderanno di dire al Papa che a Romano fece una visita anche San Giuseppe Cafasso, sia pure in circostanze assai meno liete, visto che assisteva due condannati a morte?”

Così ho deciso di raccontare questa storia, che inizia nel 1850 a Romano Canavese, mandamento di Strambino, nella provincia di Ivrea di istituzione recente (1847).

Il Natale del 1850, a Romano, è funestato da un terribile assassinio.

Nella località Cascinali (oggi Cascine) di Romano, il cadavere di Giuseppe Otello viene ritrovato nel viottolo, dietro la sua casa, che porta alla campagna. Il morto indossa soltanto la camicia ed è stato trafitto da  quattro coltellate: una mortale gli ha attraversato un polmone e il cuore.

L’omicidio è avvenuto nella notte di Natale. La famiglia di Otello si stava preparando ad uscire di casa per recarsi alla messa di mezzanotte. Giuseppe, malaticcio, non si sentiva di uscire ed era già andato a letto nella sua camera. La figlia Domenica aveva chiuso a chiave la porta di questa camera, poi l’aveva nascosta con altre chiavi - all’uso campagnolo - sul davanzale della finestra della stalla, sotto fusi e capecchi. 

Nella notte, mentre Otello dormiva, è stato bruscamente svegliato da tre malintenzionati armati, penetrati in casa. Lo hanno tirato fuori a forza dal letto e gli hanno sparato un colpo di pistola. L’arma ha fatto cilecca, la capsula di innesco si è soltanto schiacciata senza far esplodere la polvere da sparo. Hanno allora deciso di finire Otello a coltellate, ma non nella stanza. Se lo sono caricati in spalla, vestito della sola camicia, e lo hanno così trascinato nel viottolo dietro la casa, dove lo hanno ucciso a coltellate.

Durante queste manovre hanno reso inoffensivi alcuni familiari di Otello, la moglie e il figlio Battista. Gli aggressori avevano già spento il lume acceso nella stalla, prima che la moglie ed il figlio scendessero in cantina. Questi due,  sentendo dei rumori, sono subito risaliti nella cucina, ma non hanno potuto uscire all’esterno perché la porta era trattenuta a forza al di fuori, bloccandoli in casa. La moglie di Otello è allora corsa ad una piccola finestra e così, al buio, ha visto passare davanti alla finestrella un gruppo di persone, di cui uno che portava qualcosa che penzolava dalle spalle. Era il gruppo degli aggressori che trascinava Otello nel viottolo.

La donna, sempre dal finestrino, ha scorto l’ombra di un uomo robusto e di alta statura che seguiva i due che portavano il corpo sulle spalle e lo ha sentito dire queste parole, con caratteristica pronuncia: “Con… con… tag… ten… lo” (Cribbio, tienilo fermo). Moglie e figlio, quando sono riusciti ad uscire dalla cucina, si sono precipitati e sono giunti anche alcuni vicini di casa, attirati dalle grida dell’agonizzante Otello. Nel buio, hanno visto due degli assassini, più bassi, che stavano fuggendo, mentre il terzo, quello alto, si era trattenuto, per poco, in piedi vicino al cadavere.

Le indagini, verosimilmente condotte dai carabinieri, accertano che gli assassini hanno abbandonato nella camera di Otello la pistola ancora carica, con la capsula schiacciata. Si tratta di una pistola “corta” cioè di piccole dimensioni, proibita perché facilmente occultabile. Gli inquirenti trovano nella camera anche un lungo coltello a serramanico aperto, non  macchiato di sangue. 

L’omicidio apparentemente è motivato più da desiderio di vendetta che di rapina. Otello, malaticcio e di carattere paziente, non aveva destato inimicizie nei compaesani. Ma non si può neppure ritenere che gli aggressori siano degli estranei capitati lì per caso. Hanno saputo trovare  la chiave nascosta sul davanzale della finestra della stalla e distinguerla tra altre due. Hanno dimostrato di conoscere la casa e i luoghi circostanti.

Questi elementi indirizzano verso un parente fortemente sospetto degli Otello: Antonio Ruggia, un nipote, contadino di quarantacinque anni, anche lui di Romano, che covava da tempo un forte rancore contro Giuseppe Otello, per questioni di interesse. Il malanimo di Ruggia si era inasprito dopo che aveva subito condanne e provvedimenti giudiziari.

Antonio Ruggia aveva più volte manifestato il suo astio verso Otello, parlando con vari parenti: diceva che desiderava vederlo morire presto, altre volte minacciava di ucciderlo con le sue mani, proclamando l’intenzione di “scannarlo insieme con la moglie, e gettarli poi nella roggia vicina alla loro casa”.

L’odio di Ruggia era stato esacerbato quello stesso giorno, 24 dicembre, quando a Ivrea aveva incontrato lo zio Otello nell’osteria dei tre zecchini ed aveva preteso ma non ottenuto una quietanza dallo zio. Ne era nato un “diverbio assai vivo” e Ruggia si era separato dallo zio dicendogli in tono minaccioso che “quella quietanza gliela avrebbe fatta entro l’anno ed in un momento in cui non avrebbe saputo cosa di lui si facesse”. Per non incontrare il temuto nipote, Otello era ritornato a Romano passando per una strada che non era solito percorrere. Era tanto spaventato da dire ai figli che quella sera non credeva più di arrivare a chiudere la porta della sua abitazione. 

I forti sospetti su Ruggia sono avvalorati dal fatto che gli uccisori hanno facilmente trovato la chiave della camera di Otello e, dopo avere spento il lume nella stalla, hanno aperto senza sforzo, al buio, la porta per trasportare Otello nel viottolo, poco distante dal canale. L’unica spiegazione, ritengono gli inquirenti, si trova nella presenza del nipote Antonio Ruggia, certamente pratico di tutti i locali della casa e delle abitudini della famiglia.

Al nome di Ruggia, ormai considerato colpevole, la voce popolare di Romano e dintorni affianca subito, come complice, quello di un suo degno amicone, Antonio Vajo, anche lui contadino di Romano, di cinquanta anni. Vajo era in stretta relazione con Ruggia e, come Ruggia, era oberato di debiti. Vajo si trovava a Ivrea, con Ruggia, alla vigilia di Natale. Vajo e Ruggia erano soliti associarsi per farsi reciproca testimonianza nelle liti. È quindi verosimile che Vajo si sia unito a Ruggia nella impresa criminosa, con la speranza di trovare un bel malloppo da rubare nella casa di Otello.

Queste voci e questi sospetti si accrescono perché Ruggia scompare da Romano fin dal giorno di Natale. Vajo lo va a cercare a Perosa Canavese, nel mattino di Natale, per portargli del denaro che la moglie di Ruggia gli ha consegnato. Hanno passato la notte insieme in una stalla e Vajo si è dato da fare in ogni modo per nasconderlo ai carabinieri e procurargli la salvezza con la fuga.

Un preciso elemento conferma i sospetti: il coltello con la lama lunga e sottile e il manico d’osso guarnito di ottone alle due estremità, trovato nella camera di Otello è riconosciuto, da ben cinque testimoni, come appartenente a Ruggia. 

Vi è poi una serie di vaghi riconoscimenti, sia di Ruggia che di Vajo. 

La moglie di Otello, quando ha visto con angoscia il marito trascinato via, ha subito ricordato  il racconto che questi le aveva fatto delle minacce ricevute a Ivrea quello stesso giorno: nel vedere l’uomo alto che pronunciava “Con… con… tag… ten… lo” ha subito pensato che fosse Antonio Ruggia. Anche suo figlio Battista, e parecchi altri vicini di casa accorsi nel viottolo, hanno concepito questo sospetto. Alcuni di questi testimoni aggiungono che uno dei due individui più piccoli che fuggivano, assomigliava a Vajo e che quello dritto vicino al cadavere era di statura più alta, come Ruggia. Anche alla moglie di Otello pare di aver scorto qualcuno che le ricorda Vajo.

Un testimone dichiara agli inquirenti che, verso le ore undici della sera di Natale, ha incontrato per strada tre, forse quattro, individui frettolosamente incamminati in direzione dei Cascinali di Romano. Questi figuri hanno deviato dal sentiero, per non essere riconosciuti, ma il testimone ne ha notato uno, più alto di statura, che assomigliava a Ruggia, mentre uno degli altri due pareva Vajo.

Gli assassini di Giuseppe Otello erano dunque tre: uno più alto di statura, che sarebbe Ruggia, altri due più bassi, uno dei quali sarebbe Vajo. 

Il terzo uomo sarebbe Giovanni Fiò, contadino di Romano, di quarantatre anni. Anche sul suo conto sono subito nati dei sospetti alimentati dalla voce pubblica. Giovanni Fiò è infatti parente di Ruggia e fin dal giorno di Santo Stefano, con sospetta premura, si è recato dal giudice del mandamento di Strambino, per fornire a Ruggia una prova di alibi per l’ora del reato.

Altri indizi contro Fiò vengono da due inconsueti testimoni, Lorenzo Ambrosio e Maria Sapino.

Come spesso avviene in questa epoca, durante l’istruttoria, le accuse vengono confermate da compagni di cella degli imputati. Così Lorenzo Ambrosio, detenuto nelle carceri di Ivrea nella stessa cella di Vajo e di altri due reclusi, testimonia che varie volte ha sentito Vajo mentre confidava agli altri due detenuti di avere partecipato, con altri, all’omicidio di Otello: diceva che era stato lui a portarlo via sulle spalle.

Maria Sapino è una donna che, dal contesto, appare in qualche modo ritardata mentale. La Sapino, poco tempo prima del reato, ha ascoltato, non vista, compromettenti discorsi tra Ruggia e Vajo che progettavano di uccidere Otello e di gettarlo nella roggia. Quando Ruggia e Vajo avevano saputo di essere stati uditi, erano molto inquieti, tanto da interpellare i conoscenti della donna per verificare se fosse in grado di apprezzare la gravità del piano criminale ascoltato. Maria Sapino dice poi che Giovanni Fiò era presente a questi discorsi di Ruggia e Vajo. 

La responsabilità di Fiò sembra emergere anche dalle rivelazioni di Vajo, riferite dal detenuto Lorenzo Ambrosio. 

Alla conclusione dell’istruttoria emerge che l’omicidio di Giuseppe Otello è stato commesso dopo una premeditazione di più persone, che gli conferisce il carattere di “assassinio”, cioè omicidio commesso a tradimento, con premeditazione o con agguato, reato punito con la pena di morte.

Questa è l’accusa rivolta ad Antonio Ruggia, ad Antonio Vajo ed a Giovanni Fiò.

Non conosciamo la data degli arresti dei tre accusati e neppure il preciso succedersi delle indagini e dell’istruttoria. Che le indagini siano state difficili e, forse, complicate da una latitanza più o meno lunga di Antonio Ruggia, lo dimostra il lungo tempo che intercorre tra l’assassinio e il processo.

Il processo si svolge, infatti, nell’ottobre del 1852 davanti Corte di Appello di Torino. Presidente è S. E. il conte e commendatore Leonzio Massa Saluzzo.

Nel pubblico dibattimento vengono di nuovo esaminate  tutte le prove e gli indizi prima illustrati.

Ruggia tenta, con poca fortuna, di tirar fuori una prova di alibi: dice che al momento del delitto assisteva alla Messa di mezzanotte, dichiarazione che, come vedremo, colpisce la popolazione di Romano e diverrà nei racconti tradizionali il momento cruciale di tutta la vicenda.

Ruggia racconta che ha deciso ad andare alla Messa di mezzanotte per pura curiosità e trattenendosi per pochi minuti, anche se sua moglie era già andata a Messa, in precedenza e per conto suo, e quindi i giovani figli dovevano essere lasciati da soli in casa. Questa sua dichiarazione appare ai giudici poco comprensibile: per spiegare questo suo bizzarro comportamento, Ruggia tira fuori motivi che i giudici considerano “insulsi ed inverosimili”. E poi, la sua presenza in chiesa non è sufficiente per scagionarlo: Ruggia non è in grado di provare di essere stato in chiesa nel preciso momento dell’assassinio. 

Un testimone, “degno di fede” come precisa il dispositivo della sentenza, consente una ricostruzione  degli avvenimenti che concilia l’esecuzione dell’assassinio con la successiva partecipazione alla Messa.

Questo testimone è passato presso la casa di Otello ed ha sentito un rumore secco che poteva essere quello della capsula scoppiata. Si è recato alla Messa di mezzanotte “a passo ordinario” ed è arrivato anche lui in chiesa ai primi versi del Te Deum.

Ruggia e i suoi complici avevano il tempo per commettere l’assassinio e poi correre in chiesa, visto che dodici o quindici minuti sono sufficienti per percorrere il breve tratto fra la casa di Otello e la chiesa di Romano.

In aula, i giudici devono prendere anche in considerazione le dichiarazioni di Maria Sapino sui nefasti discorsi di Ruggia e Vajo. Decidono di considerarla affidabile, visto che nel dibattimento ha dimostrato di possedere “discernimento, coscienza e fede”. Le sue dichiarazioni, inoltre, sono in accordo con le deposizioni di altri testimoni.

Alla conclusione del dibattimento, i giudici sono pienamente convinti della colpevolezza di Ruggia e di Vajo.

Non altrettanto avviene per le accuse rivolte contro Giovanni Fiò: gli indizi a suo carico vengono considerati dai giudici in una luce per lui più favorevole. Secondo la Corte di Appello, tutte questi indizi possono essere spiegati anche se Fiò non ha partecipato all’assassinio. Le sue premure a favore di Ruggia possono avere una plausibile spiegazione nella loro parentela, cosa che potrebbe anche aver scatenato contro di lui la voce pubblica. La Sapino non ha sentito Fiò parlare, né ha saputo dire in quale misura Fiò avesse preso parte ai discorsi degli altri due. Anche le rivelazioni fatte da Vajo ai compagni di cella sui suoi complici non sono state così esplicite da provare la complicità di Fiò.

Così, la sentenza la sentenza del 15 ottobre 1852, assolve Fiò e condanna a morte Ruggia e Vajo. La pena deve essere eseguita a Romano.

La Campana, giornale torinese cattolico intransigente, il 18 ottobre 1852 riferisce dell’esito del processo e, secondo l’uso dell’epoca, fa i suoi complimenti ai giudici, alla pubblica accusa ed agli avvocati difensori. Il giornale, sostenitore della pena di morte, ricorda che le indagini sono state “difficilissime” perché basate su “soli indizi” poi aggiunge: “L’esecuzione a salutare esempio de’ conterranei, avrà luogo nel sito stesso dove fu consumata la pietosa tragedia, cioè ne’ cascinali di Romano”.

La difesa degli accusati presenta ricorso in Cassazione, respinto con sentenza del 23 dicembre 1852. Dal delitto sono trascorsi esattamente due anni, meno un giorno.

Non è la Corte di Cassazione a prolungare la vita dei due condannati, ma una indisposizione dell’esecutore Pietro Pantoni, il quale soffre di “dissenteria”. 

Fin dal 19 ottobre 1852, il Consiglio Comunale di Romano, riunito in seduta straordinaria, aveva deliberato di “… fare istanza al Magistrato d’Appello di Torino ed al Regio Trono affinché l’esecuzione di Antonio Ruggia e di Antonio Vajo … non avvenga ai Cascinali di Romano, ma nel Capoluogo della Provincia (Ivrea, nda) onde non lasciare nel Comune una perpetua funesta rimembranza di sì miserando Spettacolo”. Ma la richiesta non è stata accolta. 

Il processo ha destato in Torino un certo clamore. Fa notizia, desta un interesse un po’ morboso che infastidisce il giornale progressista Il Parlamento: “-Gridatori pubblici.- Benché la pubblicazione della surriferita sentenza debba ufficialmente aver luogo domani, venne tuttavia già fatta questa mattina per tutte le principali vie di Torino da monelli che assordando le orecchie de’ passanti ne annunziavano il tenore con commenti loro propri e tali che la decenza non ci permette di ripeterli. Ci pare che non dovrebbe essere malagevole all’Autorità il porre rimedio a siffatti scandali” (5 gennaio 1853).

La sentenza viene eseguita a Romano Canavese il 5 gennaio 1853. Le modalità sono illustrate in documenti di varia fonte a noi pervenuti.

Leggiamo nel verbale di esecuzione, redatto da Pietro Dalmasso Giacosa, segretario del mandamento di Strambino, che i condannati sono stati portati a Romano fin dal giorno precedente e “depositati in due distinti e separati confortatori”, celle dove i condannati trascorrono la notte che precede l’esecuzione, in questo caso allestite nel municipio. 

Ruggia e Vajo non appaiono troppo ben disposti a morire in grazia di Dio: “Le gravi difficoltà incontrate da alcuni buoni sacerdoti, mandati da monsignor Moreno (vescovo di Ivrea, nda) per confortare i giustiziandi al grande passaggio, avevano provocato l’invito a colui, al quale nessuno sapeva resistere”, cioè San Giuseppe Cafasso, come scrive nel 1912 il suo biografo Luigi Nicolis di Robilant. Ruggia e Vajo, insolitamente anziani rispetto alla media degli altri condannati, non sono soggetti facili da trattare: “E dopo mezzo secolo sono tuttavia ricordate in Romano Canavese le sante industrie  che don Cafasso aveva usate per indurre quegl’infelici ai santi Sacramenti”, così prosegue Luigi Nicolis di Robilant, per concludere: “… risulta infatti che entrambi gli infelici morirono muniti dei santi sacramenti della Penitenza ed Eucaristia”.

Il Registro della Compagnia di Misericordia di Ivrea, coevo dell’esecuzione, non fa cenno alla presenza e all’opera di San Giuseppe Cafasso e scrive che i condannati hanno ricevuto i Sacramenti di Penitenza ed Eucaristia dai sacerdoti don Bertino e don Barbero della Misericordia di Ivrea.

Torniamo al verbale di esecuzione del segretario del mandamento di Strambino: verso le sette e tre quarti, al lugubre suono della campana, il corteo dei condannati parte dalla casa comunale. È scortato da soldati inviati per tutelare l’ordine pubblico ed è aperto dai confratelli della Compagnia della Misericordia di Ivrea, presenti in numero di circa ottanta, da sacerdoti e da due confratelli della Compagnia della Misericordia di Torino. Alle otto si giunge al luogo scelto per l’esecuzione, un terreno comunale nella regione di Paluda, che dista circa un chilometro dall’abitato verso ovest. Qui, nella notte, gli esecutori di giustizia di Torino, Pietro Pantoni, Luigi Pantoni e Giorgio Porro, hanno piazzato il patibolo. Dopo cinque minuti Antonio Ruggia pende dal laccio della forca. Dopo dodici minuti, tocca ad Antonio Vajo. 

I due muoiono “con rassegnazione”. I loro cadaveri sono poi raccolti dai confratelli della Compagnia della Misericordia di Ivrea, che li pongono in due bare separate e, recitando il Salmo “Miserere”, li portano al cimitero di Romano per essere sotterrati.

Una eco polemica di questa esecuzione viene da La Voce della Libertà, giornale di Angelo Brofferio che il 21 gennaio 1853 proclama: “Ci scrivono da Ivrea. In occasione dell’esecuzione di Romano (5 corrente) la sera prima fu inviato da Ivrea un distaccamento di soldati graduati della scuola reggimentale, lasciati tutta la notte a bivacco in aperta campagna sul nudo terreno e per il freddo sessanta sono ricoverati all’ospedale. Ecco la cura che si ha dei soldati!”.

Un fatto tanto clamoroso era destinato ad essere ricordato e tramandato a Romano nel corso delle vijà nelle stalle, sottolineando la crudeltà dell’omicidio commesso nella notte di Natale ed il tentativo di crearsi un alibi accorrendo alla Messa di mezzanotte. Questi racconti tradizionali, a suo tempo narrati a don Paolo Bellono dagli anziani di Romano, sono stati trascritti dallo studioso Pietro Ramella nel suo libro Romano nel Canavese (1993). Ne emerge una vicenda non sempre perfettamente allineata con quanto risulta dai documenti e incentrata sulla partecipazione degli assassini alla Messa di mezzanotte. 

Si narrava che la sera della vigilia di Natale del 1850 due uomini di Romano, Antonio Ruggia e Antonio Vajo, erano andati ai Cascinali di Romano per trattare un certo affare con Giuseppe Otello. Durante le trattative era scoppiata una lite ed i due, col coltello, avevano ucciso Otello. Dopo, Ruggia e Vajo erano ritornati a Romano. La strada era coperta di neve e la luna splendeva nel cielo invernale. I due, irriconoscibili perché avvolti in ampi mantelli e coi cappelli ben calcati in testa, camminavano frettolosi, con gli zoccoli ancora sporchi del sangue della loro vittima. I due si erano diretti alla chiesa, dove iniziava la celebrazione della Messa di mezzanotte. Erano rimasti al fondo della chiesa e, per farsi notare dai presenti, avevano offerto loro una preisa ‘d tabach. Nel processo aveva testimoniato contro i due imputati una vecchia muta, vicina di casa di Otello (rielaborazione della ritardata Maria Sapino?). 

Prova determinante per l’accusa era stata l’offerta di quella preisa ‘d tabach a persone incontrate per caso a Messa, perché inconsueta tra popolani, e quindi fortemente suggestiva del loro desiderio di farsi notare. Migliaia di persone erano venute dalle vicine contrade, per assistere all’esecuzione capitale, mentre la gente di Romano, per la vergogna, era rimasta chiusa in casa per tutto il giorno. 

Questa è la storia di un delitto di Natale realmente avvenuto. 

La letteratura poliziesca annovera un significativo numero di romanzi e racconti dedicati a delitti commessi a Natale: questa festività stimola la fantasia dei vari autori a creare furti e omicidi su cui indagano celebri investigatori come Sherlock Holmes, Hercule Poirot, il commissario Maigret, ecc.

Ma l’idea del Natale associato all’assassinio, al sangue, alla neve - gli elementi più drammatici e commoventi dei racconti tradizionali di Romano Canavese - compare anche nella letteratura per la scuola elementare. Piero Bargellini è autore di un “Racconto di Natale”, dove si narra di un assassino, con le mani insanguinate, che nella nevosa notte di Natale, si pente del suo delitto mentre assiste alla Messa. Questo racconto era presente sia nel mio libro di lettura che in quello di mia moglie, in uso nelle scuole elementari alla metà degli anni Cinquanta.

Milo Julini

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