Nel basso Medioevo, l’agricoltura – per Ivrea e dintorni – rappresentava l’unica vera attività produttiva. Ciò che la terra procurava, non solo attraverso la coltivazione dei campi, lo sfruttamento dei boschi, ma anche la cattura di animali bradi o l’allevamento di quelli domestici, forniva di che vivere ai contadini e, attraverso il commercio, anche agli abitanti della città. Questi ultimi, anch’essi praticavano un po’ di coltivazione e di allevamento, ma sviluppavano, come attività primaria, la trasformazione delle merci che ricevevano dalla campagna circostante. Nella città, dunque, era nata tutta una serie di botteghe artigianali, che, oltre a soddisfare le esigenze dei cittadini, producevano tutto quanto i contadini non erano in grado di fabbricarsi autonomamente.
La città e la campagna erano dunque strettamente interdipendenti e praticavano un tipo di economia abbastanza chiusa. Il loro commercio aveva la sua massima espressione nei mercati settimanali del martedì e del venerdì, quando accorrevano ad Ivrea mercanti anche dal Biellese e dal Vercellese, così come accadeva nelle fiere, chiamate
nundine, che duravano più giorni, in occasione di particolari feste religiose. Di conseguenza, i mercati erano oggetto di speciale attenzione da parte della Credenza, che cercava in vari modi di agevolarne e regolamentarne lo svolgimento, anzitutto garantendo la sicurezza di chi veniva ad Ivrea per effettuare vendite o acquisti.
Il mercato di Ivrea. Le disposizioni sono molto minuziose. Negli Statuti del 1329 (1) si legge quanto segue: «Chiunque possa venire al mercato di Ivrea in sicurezza e comprare e vendere qualunque mercanzia liberamente, all’ingrosso, al minuto e al dettaglio, come è consuetudine, rimanendo tuttavia in vigore i pignoramenti nei loro confronti. (Il capitolo) non sarà valido per chi abbia leso qualcuno nella persona, per i banditi, per i ladroni, o coloro che hanno memoriali o liti in sospeso contro Ivrea, i quali non debbono assolutamente frequentare la città ed il distretto»
. La Credenza stabilì anche (2)
Quibus locis debeant teneri mercata, con determinazioni topografiche chiarissime per i contemporanei, ma piuttosto nebulose per noi. «Stabilirono poi ed ordinarono che tutti i mercati tradizionali nei giorni di venerdì e martedì siano tenuti e si svolgano in quei giorni e nella contrada che si chiama del mercato e non altrove. Il Podestà con qualunque mezzo dovrà impedire che i mercati nei suddetti giorni, eccetto durante le fiere, si tengano altrove; ciascun contravventore pagherà ogni volta 2 soldi di multa. E si sappia che detta contrada del mercato ha questa delimitazione: dalla casa di Pietro Sertore di Romano su fino alla casa nuova di Arnaldino del Pozzo che si trova oltre la casa di Larupello verso il mercato e fino alla chiesa di san Donato andando verso la casa di quelli di Masino e la casa che una volta era di Martino Tonso, e da detta chiesa andando verso la casa che una volta era di Zapirone fino alla suddetta casa di Pietro di Romano»
. Una limitazione temporale è prescritta in un altro capitolo (3), dal titolo, già da solo riassuntivo del contenuto:
de non faciendo forum in die dominica. Il capitolo è assai lungo, caratterizzato dalla solita minuzia, che nell’insieme ci descrive una pagina di vita quotidiana, fornendoci gustosi particolari ed elenchi, mai tediosi, degli oggetti di compravendita. A titolo esemplificativo, basterà leggere alcuni periodi iniziali. «Fu anche stabilito e ordinato da alcuni uomini saggi, eletti e deputati, in merito al buon andamento del comune di Ivrea, che d’ora in avanti, come per l’addietro, non si faccia e non si debba fare, nella città di Ivrea o nei sobborghi, nessuna attività commerciale o mercato, nel giorno di domenica, in qualunque modo o forma, ma tutti i mercanti di domenica devono cessare la loro attività, secondo quanto specificato più avanti, cioè che una o più persone, di qualunque luogo siano, non possano né debbano, in tale giorno di domenica, portare o far portare, condurre o far condurre, alla città di Ivrea o ai sobborghi, allo scopo di cercare acquirenti, o di vendere o per altri traffici, frumento, segale, avena, orzo, meliga o altri tipi di granaglie oppure saggina, ceci, fave, fagioli né qualche altro legume, e neppure castagne o noci, aglio o cipolle, buoi o vacche, porci o scrofe, pecore o agnelli castrati o capre e nessun’altra specie di bestie o di giumenti o qualunque altra mercanzia»
. Ai contravventori sarà sequestrata la merce. Nel seguito del capitolo si danno disposizioni riguardanti i venditori di panni e tele, gli speziali, i calzolai, i conciatori di pelli; tutti costoro, oltre al sequestro della merce, incorreranno anche in una multa di 10 soldi imperiali.
Interessante anche quanto si dispone riguardo gli apotecari cioè bottegai: «Tutti coloro che hanno un’apoteca, debbono tenere la bottega chiusa ogni domenica e per tutto il giorno, a meno che l’apoteca dia l’accesso e l’ingresso alla loro casa, tuttavia le merci dovranno rimanere chiuse»
. Di domenica non potranno svolgere la loro attività neppure coloro che prestano denaro a interesse o dietro pegni, i trasportatori, i venditori di sale all’ingrosso. Il Podestà dovrà, almeno due domeniche al mese, far eseguire dei controlli minuziosi. Anche i notai e gli scribi non potranno ricevere nessuno strumento legale.
Vi erano però merci che il produttore poteva vendere di domenica, ma al minuto e non all’ingrosso: galline, capponi e galletti, oche e tutti gli altri volatili, sia domestici che selvatici, qualunque selvaggina, pesci, agnelli, uova, mele, noci e tutti gli altri frutti, cavoli, erbe, agli, cipolle, rape e tutti i prodotti dell’orto, inoltre legname nella quantità che riusciva a portare su di sé. Perché il mercato si potesse svolgere più agevolmente, si dotò il quartiere di una piazza (4). «Stabilirono poi ed ordinarono che entro 15 giorni dall’insediamento del podestà si eleggano due sorestani, che abbiano la cura e l’autorità di far costruire una piazza nel mercato, cioè nel terreno che si trova fra le case degli eredi del signor Ardissono Taliandi e le case degli eredi di Ubertino di Stria, come a loro sembrerà opportuno, a spese di coloro che in quel sito possiedono case o che vi hanno qualche interesse; questa piazza rimarrà sempre scoperta (
priva di costruzioni), salvo che i predetti proprietari di case adiacenti alla piazza possano costruire dei portici a ridosso della stessa piazza, e affittare ogni anno a chi vogliono i portici e la piazza, a condizione che non possano chiudere la piazza verso la casa di Giacomo Cane. I sorestani saranno eletti da coloro che hanno case presso quel terreno e, una volta conclusa l’opera, se il comune di Ivrea, entro due anni, vorrà rimborsare le spese ai proprietari delle case adiacenti a detto terreno, la piazza rimarrà a disposizione del comune; l’opera dovrà essere terminata entro un anno»
. Sotto la data del 1433 (5), vi è un capitolo intitolato:
Rubrica de bestiis non arrestandis conductis ad forum. «Stabilirono ed ordinarono che in qualunque giorno di mercato nella predetta città non sia permesso ad alcuno sequestrare e trattenere, e neppure far sequestrare e trattenere, dei bovini o degli equini, se non ad istanza di un cittadino o distrettuale che sia realmente creditore, sotto pena di dieci soldi imperiali»
. Nel 1461 poi (6) si stabilisce quanto segue. «Stabilirono e ordinarono, per il bene pubblico e l’utilità della città di Ivrea, che nessuno straniero o forestiero, che non sia cittadino e non affronti gli oneri reali e personali della città, possa in qualsiasi modo per qualunque debito, nei giorni di mercato, far arrestare o trattenere un forestiero o una persona estranea che viene al mercato della stessa città di Ivrea, sotto pena di sessanta soldi».
La berlina. Nel 1343 (7), nell’area mercatale, viene sistemato uno strumento di pena. «Stabilirono e ordinarono che sulla roccia del mercato, a spese dei calzolai e dei formaggiai che vendono al mercato, si costruisca una berlina, dove chi sarà colto ad aver commesso nel mercato un furto per un valore superiore a 5 soldi, venga messo dalle guardie del podestà, e vi rimanga per tutto il giorno in cui ha commesso il reato. Quanto così stabilito, rimanga in vigore per tre anni»
. Ma chi ha costruito la berlina non viene pagato, perciò la Credenza, l’anno successivo, impone al Podestà di prendere provvedimenti drastici (8). «Il signor podestà attualmente in carica ... sia tenuto e debba, con solenne ed immutabile giuramento, obbligare e costringere i consoli dei calzolai a stabilire fra di loro una taglia per pagare Aimoneto Ariete per aver costruito la berlina. Stabilita la taglia, il signor podestà sia tenuto e debba costringere ognuno dei calzolai a pagare la quota a lui imposta. Allo stesso modo il podestà sia tenuto e debba costringere con pene e multe tutti i formaggiai che vendono formaggio nel mercato e coloro che portano nel mercato calzature (9) e formaggio, a pagare le taglie loro imposte per la costruzione di detta berlina, fino a dare piena soddisfazione ad Ariete. E nessun avvocato o procuratore osi e si azzardi a prestare la propria opera a favore dei calzolai e dei formaggiai nella presente causa, sotto pena e multa di 60 soldi imperiali. Il podestà sia tenuto e debba effettuare la riscossione prima che escano dal palazzo. Tutto questo si applica soltanto ai calzolai ed ai formaggiai della città di Ivrea e a nessun altro»
. Il tempo delle fiere. Anche le fiere, le
nundine o
innundine, avevano tutta una serie di disposizioni miranti a tutelarne uno svolgimento quanto più possibile ordinato e tranquillo. Un importante capitolo (10) è intitolato appunto
De innundinis Yporegie. Il capitolo è gravemente mutilo, infatti nella parte centrale vi è un’ampia lacuna, tuttavia ci documenta le date in cui si svolgevano le fiere e ci dice che non tutte le merci potevano essere vendute in ogni punto della città, ma in luoghi diversi secondo la ricorrenza. Ecco la parte sopravvissuta. «Stabilirono poi ed ordinarono che ogni anno nella festa della beata Maria di metà agosto e nella festa di san Besso (11), con i tre giorni precedenti ed i tre seguenti, e nelle feste di san Giorgio (
23 aprile) e di san Marco evangelista (
25 aprile) si tengano e si facciano pubblicamente le fiere generali e per alcuni giorni prima siano proclamate e notificate tanto nella città di Ivrea quanto nelle altre città e luoghi circostanti, nel modo in cui al podestà ed ai procuratori del comune sembrerà opportuno disporre, ed in esse tutte le cose commerciabili possano … [lacuna] cioè nella fiera di santa Maria, nel ghiaro (12) della Dora al di sopra del ponte, e nella fiera di san Besso presso la riva del lago, e i maiali in cursèria (13), e nella fiera di san Giorgio e di san Marco i maiali fuori dalla porta di Bando fino all’angolo di santo Stefano presso la Dora, e le altre bestie in Blancheto (14), nella contrada oltre il rio dei mulini dei Taliandi; e tutte queste fiere si svolgano per i tre giorni precedenti la festa e per i tre giorni immediatamente successivi (15)». Alcuni anni più tardi (16) si stabilisce che «le fiere si svolgano per 8 giorni prima e per 8 giorni dopo [
la festa] ... E che chiunque venga alle suddette fiere sia trattato nella città di Ivrea e nei sobborghi come un cittadino della città di Ivrea»
. Questo lungo periodo di fiera cadde però in disuso: infatti negli Statuti del 1433 (17) si fissò una differente durata. Lo stesso capitolo reca un elenco di fiere che non coincide con quello visto in precedenza. «Stabilirono poi e ordinarono che nelle fiere che per consuetudine si svolgono nella città di Ivrea, cioè nella festa dell’assunzione della beata Maria di metà agosto, la qual fiera si tiene nel terziere di San Maurizio, al ghiaro dei mulini della Dora; nella festa di sant’Andrea apostolo, che si tiene nel terziere di Città presso Pasquerio; nella festa di san Giorgio, che si tiene nel terziere di Borgo, cioè in Albeto e nel sobborgo di Bando; e nella festa dei santi Matteo e Maurizio; (
stabilirono e ordinarono che) per cinque giorni prima di dette festività ed altrettanti dopo, (
cioè) durante le fiere, qualunque persona, con le sue cose ed i suoi beni, possa venire a tali fiere e tornarsene via, fermarsi in città e nel distretto, fare i suoi affari senza pericolo ed in sicurezza»
. Di queste favorevoli condizioni, naturalmente, non potevano godere «... i ribelli al nostro signore illustrissimo, i falsari, gli incendiari, i ladri, i rapinatori ed altri uomini di cattiva reputazione, malfamati, ed anche altre persone provenienti da luoghi infetti».
La compravendita: baratto e monete. Concludo con qualche osservazione, a proposito della compravendita. Mentre nelle campagne era ampiamente praticato il baratto, ad Ivrea e nelle altre città canavesane era prevalente l’uso della moneta, di cui esisteva una gran varietà, di conseguenza il panorama monetario risulta complesso e confuso, pertanto meriterebbe una trattazione a parte. Mi limiterò dunque ad un breve accenno, che può farci comprendere la complessità del problema. Le monete utilizzate, che in genere non andavano mai fuori corso, non avevano un’unica provenienza, basti pensare che molte città avevano una zecca: anche Ivrea la ebbe per un certo periodo, così pure Biella e Vercelli, per nominare solo due città con cui Ivrea aveva frequenti contatti commerciali; di solito tutte le monete, anche di stati esteri, erano comunemente accettate, a meno che venissero vietate dall’autorità di un determinato luogo. Ciò naturalmente determinava una notevole confusione, tanto da costringere ad aggettivare monete omonime ma di differente origine, ad esempio libbra imperiale, libbra viennese, soldi viennesi e così via. Ma se per monete di larga diffusione non era difficilissimo stabilire, nel commercio spicciolo, il loro valore, di fronte ad altre monete dalle denominazioni meno ricorrenti, la cosa diveniva assai più problematica. Qualche esempio: a Favria (18) sono nominati i
coronati, non ben quantificabili; a Chivasso (19) il
fortum, moneta di rame; a Canischio (20) gli
ambrogini. Si trattava sempre di monete metalliche, e molto spesso di metallo pregiato. Proprio questo particolare aiutava a determinarne il valore, con un’accettabile approssimazione: bastava pesare le singole monete, il che permetteva di confrontare differenti divise in base alla quantità di metallo contenuto. Il conio infatti garantiva soltanto la bontà del metallo o della lega utilizzati, ma non metteva al riparo dalla furberia dei disonesti, che limavano i bordi delle monete d’oro o d’argento. Anche quando le autorità che battevano denaro presero la decisione di zigrinare l’orlo di tali monete, non sempre ottennero il risultato
voluto, perché al ladro bastava armarsi d’un po’ più di pazienza, limare la zigrinatura e poi rifarla. Rimaneva pur sempre la possibilità che qualcuno tentasse di trarre profitto usando una bilancia contraffatta per pesare le monete «alleggerite». Non era un caso infrequente: mi limito a riportare un breve ma illuminante capitolo degli statuti di Valperga (21). «Stabilirono ed ordinarono che nessuno osi o si azzardi a tenere un falso peso per pesare monete di qualunque tipo. Il contravventore pagherà una multa di dieci soldi viennesi per ogni contravvenzione»
. Un ultimo, grave inconveniente, oltre la varietà delle monete era che ognuna di esse aveva un valore che rapidamente mutava, per non parlare dell’altrettanto mutevole potere d’acquisto, che dovrebbe rappresentare il reale valore di qualunque moneta, ma che noi a fatica possiamo stabilire per quanto ci riguarda direttamente ed a maggior ragione per quei nostri remoti antenati. Vien fatto di pensare che proprio per tutte queste incertezze, oltre naturalmente la scarsità del denaro, specialmente nelle campagne si preferisse il più antico e collaudato sistema del baratto.
Savino Giglio Tos
Note 1. Libro II, cap. 28. 2. Libro II, cap. 27. 3. Libro VI, cap. I. 4. Libro VI, cap. 54. 5. Libro VII, cap. 41. 6.
Octave addiciones, cap. 2. 7.
Addiciones anno 1343, cap. 16. 8.
Addiciones anno 1344, cap. 17, pag. 226. 9. Il testo latino reca
sutulares,
che il Dizionario del Du Cange così definisce:
calcei, pedulium genus, quibus maxime monachi per noctem utebantur in aestate (calzature, specie di sandali, usate di notte specialmente dai monaci durante l’estate). 10. Libro II, cap. 29. 11. San Besso, assieme a San Savino, è patrono di Ivrea, nel cui Duomo vi è una pala d’altare che lo raffigura. Due sono le ricorrenze: 1 dicembre e 10 agosto. 12. Greto ghiaioso della Dora, a monte del ponte vecchio. 13. Zona presso l’omonima chiesa vicina alle mura, ora distrutta, ma il sito è ancora individuabile da una croce che si vede all’inizio di via Circonvallazione. 14. Località nei pressi della porta di Bando, attuale porta Vercelli. 15. Oltre, naturalmente, il giorno della festa. 16.
Addiciones del 1344, cap. 14. 17. Libro VIII, cap. LXVIIII. 18. Statuti del 1472, cap. 97. 19. Statuti del 1504, cap. 3. 20. Statuti del 1405, cap. 71. 21. Statuti del 1350, cap. 44.