Ahmadreza Djalali e la sua famiglia tornano a sperare. La Sezione 33 della Corte suprema iraniana ha sospeso l'esecuzione della condanna a morte del ricercatore, arrestato nel 2016 a Teheran con l'accusa di essere una spia. E ha chiesto a un procuratore aggiunto di esprimere, entro febbraio, un parere in merito. Sulla decisione, resa nota dall'Università del Piemonte Orientale di cui Djalali è stato collaboratore, avrebbero influito le sue precarie condizioni di salute. E, in particolare, la necessità di sottoporlo ad esami fuori dal carcere - che fino ad ora i giudici avevano negato - per verificare un "possibile tumore". L'università piemontese, nel riferire la notizia del rinvio della condanna a morte, cita il Center for Human Rights, secondo cui la sentenza doveva essere eseguita venerdì scorso. Per l'ateneo, che spera "non si rivelino così gravose" le sue condizioni, gli avvocati difensori "auspicano che questa revisione del processo possa portare un ribaltamento della sentenza". Un bel regalo di compleanno per Djalali, 47 anni lo scorso 14 gennaio e una vera e propria mobilitazione internazionale a suo sostegno, partita dall'università di Novara dove per quattro anni ha lavorato al Credim, il Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri. Nessuno tra i colleghi italiani, e non solo, ha creduto alla sua confessione, lo scorso 17 dicembre, quando sulla tv di Stato iraniana ha ammesso di avere spiato il programma nucleare di Teheran per conto di una nazione europea. "Mi chiedevano informazioni sulle attività iraniane e le persone che lavoravano ai progetti nucleari", ha detto alle telecamere. Una confessione pre-concordata anche per la moglie, Vida Mehrannia, che prima dell'arresto di Djalali si era trasferita con lui e i figli dall'Italia alla Svezia. "Dopo tre mesi in isolamento, i suoi accusatori gli hanno detto che sarebbe stato rilasciato - ha sostenuto - solo se avesse letto un testo davanti alla telecamera". Tira un sospiro di sollievo per il rinvio dell'esecuzione della condanna a morte anche il Consiglio regionale del Piemonte. Che, nell'esprimere soddisfazione per lo spiraglio apertosi nella vicenda, ricorda "di essersi espresso con tre ordini del giorno chiedendo che il governo si facesse parte attiva per la sua liberazione".
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