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TORINO. Schmidheiny: "Il processo eternit bis non s'ha da fare"

TORINO. Schmidheiny: "Il processo eternit bis non s'ha da fare"

Stephan Schmidheiny

Il processo Eternit non s'ha da fare: è una "inaccettabile" violazione di un caposaldo del diritto noto come 'ne bis in idem' perché è una causa in cui si giudica per la seconda volta un imputato per lo stesso fatto. Nella maxi aula 1 del Palazzo di giustizia di Torino la parola passa alla difesa di Stephan Schmidheiny, l'imprenditore svizzero accusato a titolo di omicidio volontario della morte di 258 persone. E la difesa ne approfitta per partire al contrattacco. La prima richiesta dei professori Guido Carlo Alleva e Astolfo di Amato è di scrivere subito la parola "fine" al procedimento. "I fatti - spiegano - sono identici a quelli che erano stati contestati nel procedimento precedente, quello per il disastro ambientale, dichiarato prescritto dalla Cassazione. Nel capo d'imputazione compaiono dei nuovi casi di morte, ma non fa differenza: il concetto è che la condotta addebitata all' imputato è la stessa. Ed era una condotta, come ha sancito la Cassazione, terminata nel 1986, con la chiusura degli stabilimenti Eternit". I pm Raffaele Guariniello e Gianfranco Colace non la vedono così (diversamente non avrebbero nemmeno fatto partire l'inchiesta bis) e alla prossima udienza, l'11 giugno, replicheranno colpo su colpo. Di argomenti da affrontare, però, ce ne sono parecchi perché la difesa non si è concentrata soltanto sul 'ne bis in idem'. Ha proposto, per esempio, di sollevare una questione di legittimità costituzionale che tocca il nodo della prescrizione: "Un processo che si celebra a trent'anni di distanza compromette i diritti della difesa: come si fa a rintracciare i testimoni e a recuperare i documenti?". Ma i decessi - sarà la contromossa dei pm - sono assai più recenti: nel solo 2014 ne sono stati conteggiati almeno cinque. Ed è questo che fa scattare la nuova accusa di omicidio. Secondo la procura, Schmidheiny deve essere giudicato e condannato in quanto, pur essendo perfettamente a conoscenza dei pericoli della lavorazione dell'amianto, non prese provvedimenti adeguati e, anzi, fece di tutto per nascondere e minimizzare. "Non è vero", risponde l'avvocato Di Amato: "La sua società investì ben 75 miliardi dell'epoca in sicurezza. Basta questo per far cadere l'ipotesi del dolo". Ma l'ultima stoccata il professore la riserva al governo italiano, che alla scorsa udienza si è costituito parte civile: "La Repubblica italiana, in materia di amianto, è stata morosa e inadempiente: ci ha messo dieci anni per attuare le direttive comunitarie che fissavano i limiti per la diffusione delle polveri di amianto. Mi chiedo con quale faccia, adesso, pretenderà un risarcimento".
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