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Costume e Società

Spotify investe nella guerra, gli artisti zitti. Willie Peyote li "sputtana" tutti

Sul palco del Wondergate Festival di Napoli, il rapper torinese sferra un attacco frontale al CEO Daniel Ek, accusandolo di investire nella guerra e di sostenere Donald Trump. Una denuncia scomoda che mette a nudo l’ipocrisia dell’industria musicale

Willie Peyote contro Spotify: “Finanzia i droni e Trump. E nessuno dice un cazzo”

Willie Peyote (instagram)

“Mi chiedo perché il nostro governo non faccia un cazzo”. È accaduto venerdì 19 luglio, sul palco del Wondergate Festival di Napoli, davanti a una platea gremita e attonita. In un Paese dove ogni parola pubblica è trattata come potenziale minaccia al quieto vivere, Willie Peyote ha fatto saltare la diga. Nessuna retorica. Nessun compromesso. Solo verità scomode, dette con la rabbia asciutta di chi sa benissimo da che parte stare. E lo dichiara senza mediazioni.

Lo ha fatto come solo lui sa fare, con il linguaggio spietato e lucidissimo di chi è nato per non compiacere nessuno. “Tutti gli artisti giustamente si schierano per dire di fermare il genocidio a Gaza, però nessuno dice mai un cazzo su Spotify”. Una frase che è diventata subito virale, ma che non è solo uno slogan da condividere: è un’accusa circostanziata, precisa, documentata.

Daniel Ek, fondatore e CEO della più grande piattaforma musicale del mondo, ha investito 600 milioni di euro nella start-up anglo-tedesca Helsing, che sviluppa sistemi d’intelligenza artificiale per l’industria bellica, in particolare droni da guerra. E secondo il quotidiano svedese Dagens Nyheter, avrebbe anche versato 150.000 dollari per partecipare alla festa d’insediamento di Donald Trump, nel 2017. Non un filantropo. Non un imprenditore illuminato. Ma un uomo d’affari che guadagna miliardi facendo da intermediario tra chi crea arte e chi la consuma, e che poi investe quei guadagni in strumenti di morte e in leader che promuovono odio e divisione.

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Willie Peyote, dal palco, ha squarciato questo velo d’ipocrisia con la naturalezza feroce che lo contraddistingue da anni. “In questo periodo tutti gli artisti si schierano per dire Free Palestine, e siamo tutti su Spotify, ma poi nessuno parla di questa cosa. A me sembra un controsenso”, ha detto al microfono. E a quel punto, nel silenzio improvviso che ha seguito le sue parole, si è capito che non si trattava di una trovata scenica. Era una dichiarazione di responsabilità. Una dichiarazione politica. Una dichiarazione morale.

Chi conosce Willie Peyote – all’anagrafe Guglielmo Bruno, classe 1985, originario di Leini (To), con una laurea in Scienze Politiche e una carriera iniziata nei centri sociali e proseguita nei palchi dei festival più importanti d’Italia – sa che non è nuovo a questi gesti. È uno di quegli artisti che usa la musica per dire davvero qualcosa. Che sa essere ironico, dissacrante, pungente, ma mai vuoto. Un uomo che ha fatto della coerenza un principio. E della lucidità un’arma.

Nel 2021 ha vinto il Premio della Critica a Sanremo con “Mai dire mai (La locura)”, una canzone che prendeva in giro l’intero mondo dell’informazione, della tv, del populismo da reality show. In quell’occasione, come in molte altre, ha dimostrato che il palco non lo usa per promuovere se stesso, ma per mettere in discussione tutto il resto.

E così ha fatto anche a Napoli. Perché le sue parole non erano rivolte solo a Ek. Ma anche a tutti gli altri. A noi. A chi ascolta la musica, la condivide, la consuma come intrattenimento. A chi la fa, e si accontenta dei pochi spicci ricevuti dallo streaming pur di restare nella playlist giusta. A chi predica giustizia e pace ma continua a ingrassare le piattaforme dei nuovi oligarchi digitali.

“Se siete a un mio concerto, sapete da che parte sto”. Una frase che è diventata il confine tra due mondi. Da una parte chi accetta lo status quo. Dall’altra chi osa incrinarlo. Perché in questo tempo iperconnesso, dove tutti hanno un profilo, una storia, un posizionamento, Willie Peyote è uno dei pochi che continua a mettere in discussione anche se stesso.

Il suo attacco a Spotify non è solo una provocazione contro un colosso. È un grido di allarme su come l’arte viene svuotata di senso quando diventa parte inconsapevole di un’economia globale che finanzia le guerre, costruisce algoritmi per uccidere, appoggia figure politiche reazionarie e intanto si veste di inclusività e impegno sociale. È facile dire Free Palestine. È più difficile rinunciare a una piattaforma che ti fa guadagnare (poco) ma ti rende visibile. È più difficile scegliere di parlare quando tutti tacciono.

Ed è qui che Willie Peyote si distingue. Perché non è mai stato interessato a piacere a tutti. Perché ha sempre rifiutato le scorciatoie. Perché ha costruito la sua carriera facendo le domande giuste, anche quando le risposte erano scomode.

A Napoli ha dimostrato che c’è ancora chi è disposto a perdere qualcosa per dire la verità. Chi è disposto a mettersi contro i potenti. Chi sa che ogni canzone, ogni palco, ogni parola, può diventare un gesto di resistenza.

E in un momento storico in cui la musica rischia di diventare solo sottofondo anestetico per scroll compulsivi, Willie Peyote ci ricorda che può ancora essere lotta, pensiero, scelta. E che la coerenza, oggi più che mai, è un atto rivoluzionario.

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