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Costume e società

Willie Peyote: “Sulla riva del fiume c’è anche il mio cadavere”. Tra musica, politica e disincanto

Il cantautore torinese si racconta in una lunga intervista: dal nuovo tour al rapporto con i giovani, dal lavoro precario al machismo nel rap. “L’arte riflette il tempo. E se oggi la musica parla poco di politica, è perché noi per primi ne parliamo poco”.

Willie Peyote: “Sulla riva del fiume c’è anche il mio cadavere”. Tra musica, politica e disincanto

Willie Peyote

Sta girando l’Italia con il suo tour “Grazie ma non grazie”, partito da casa sua, Torino, il 25 giugno. Ma Willie Peyote, rapper, cantautore, provocatore gentile e cinico osservatore del presente, non ha bisogno di luci stroboscopiche o effetti speciali per farsi notare. Gli basta parlare. E nella lunga intervista concessa all’AGI, lo fa con la consueta lucidità, mescolando ironia e amarezza, filosofia e sarcasmo, rabbia e speranza.

“Abbiamo cominciato da Torino, con tanti amici e ospiti. Sul palco anche Fulminacci, e parecchi romani… Presto arriveremo a Roma per il Rock in Roma. È la città in cui torno più volentieri”. Ma è il nuovo disco, Sulla Riva del Fiume, a dare il ritmo a questo viaggio. E il titolo non è scelto a caso.

“Ha un doppio significato. I Murazzi sul Po sono il luogo mitico dove la musica torinese è nata. Ma la riva del fiume è anche dove si aspetta di vedere passare il cadavere del nemico. Un luogo d’attesa. Solo che, se aspetti troppo, finisce che passa anche il tuo”. E allora, conclude, “Sulla Riva del Fiume” è un invito all’azione, non alla contemplazione.

L’intervista tocca i grandi temi che gli stanno a cuore. Non è un artista che ama le etichette, ma una se la prende volentieri: “L’indie mi va benissimo, se significa libertà di approccio. Molti di noi, come Coez o Frah Quintale, venivamo dal rap e l’abbiamo portato verso la canzone d’autore. Un punto d’incontro tra la cultura hip-hop e la tradizione italiana”.

A differenza di molti suoi colleghi, Willie Peyote non si tira mai indietro quando c’è da parlare di politica, società, giovani. E lo fa senza slogan, ma con parole pensate. “L’arte è lo specchio del tempo. Se oggi si parla poco di politica, è perché la società è meno interessata. Non è l’arte la causa, ma il riflesso. Io ho quasi 40 anni, mi sono formato negli anni ’90: certe cose le ho dentro, non potrei scrivere altrimenti”.

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E i giovani? “Mi piacciono. Hanno dimostrato più volte di esserci. Hanno meno strumenti per prendersi lo spazio rispetto a noi. La vera domanda è: piaccio io a loro? Ma in ogni caso li rispetto. Sono l’espressione del tempo che viviamo”.

Quanto alla classe politica, Willie non fa sconti: “Non mi sento rappresentato. Oggi ci si vende tutti nello stesso modo. Questo svilisce tutto. Se svilisce l’arte, figurati la politica, che dovrebbe essere più seria dell’arte stessa”.

Quando gli chiedono quale sia la sua canzone più “politica”, lui va dritto al punto: “Dipende da cosa si intende per politica. Ma ‘Che bella giornata’ è quella che racconta meglio il mondo del lavoro precario. Di lavoro in Italia si parla troppo poco”.

E sulla questione del machismo nel rap, ribalta la prospettiva: “È molto meno machista di un tempo. Il problema è che si parla sempre solo dei testi peggiori. Ma ci sono tanti giovani rapper che si pongono il problema, e andrebbero valorizzati”.

Poi c’è il mercato, l’ossessione da “sold out”, il mito della crescita infinita, denunciato anche da Federico Zampaglione. “È un’idea malata, tipicamente liberista: se oggi fai mille spettatori, domani devi farne 1500. Se ne fai 50mila, l’anno prossimo devono essere 60mila. Invece dovremmo anche imparare ad accontentarci. Vale nella musica, come nella vita”.

Sul fronte dei riferimenti musicali, cita con orgoglio Califano, Paolo Conte, Daniele Silvestri: “Senza Silvestri, non farei quello che faccio. La scuola romana è sempre nei miei ascolti”. E confessa un piccolo aneddoto da Sanremo: “Spesso mi scambiano per Dario Brunori. Lo prendo come un complimento”.

Il nuovo singolo “Next” non è autobiografico, ma parla a tutti: “Non ho mai usato app di incontri, ma mi sembrava un buon espediente per raccontare come viviamo oggi. Abbiamo infinite alternative, ci stanchiamo subito di tutto, anche delle persone. Le dating app sono la metafora perfetta”.

E se un giorno dovesse scrivere per una grande voce femminile? “Mi piacerebbe moltissimo. Penso a Giorgia, Elisa… sarebbe un onore. Come il Califfo con Mia Martini, o Vasco con tante interpreti straordinarie”.

Sanremo? Pausa. “Due volte in cinque anni basta. Lo scompiglio lo portino gli altri. Io ora me lo godo da casa”. E quando si parla di Torino e del Toro, lo spirito non cambia: “Vediamo… sarà la solita stagione anonima. Ma io ci sarò, sempre allo stadio. Non mi toglieranno la passione”.

Willie Peyote non è mai banale. Parla come canta. E canta come pensa. Con ironia, intelligenza e una malinconia che sa essere musica. E resistenza.

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