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17 Giugno 2021 - 12:17
La soprano Lucia Cortese
Giovanni tasso
Tra il XVII e la prima metà del XVIII secolo a Napoli fiorì una rigogliosa produzione devozionale, caratterizzata da una intensa carica espressiva, che a seconda dei casi poteva assumere toni meditativi, gioiosi o profondamente drammatici. Sfumature che venivano spesso tradotte con una spiccata teatralità, soprattutto se l’autore era anche attivo nel campo dell’opera seria, come il tedesco Johann Adolf Hasse, che nella capitale partenopea trovò terreno fertilissimo per sviluppare il suo genio, e il grande Giovanni Battista Pergolesi, morto di tubercolosi a soli 26 anni di età e passato alla storia sotto il profilo comico per lo scintillante intermezzo La serva padrona e sotto quello drammatico grazie al suo struggente Stabat Mater.
Composto a partire dal 1734 e portato a termine poco prima della morte, lo Stabat Mater in fa minore rappresenta una della massime espressioni dell’arte sacra della prima metà del XVII secolo, esprimendo con straordinaria intensità l’animo dolente della sequenza latina tardo medievale e, di riflesso, quello del compositore, in una forma musicale raffinatissima e scevra di qualsiasi orpello accademico. Nonostante le ricerche e i contributi di numerosi studiosi di fama, la musicologia non è ancora riuscita a ricostruire la genesi dello Stabat Mater di Pergolesi, che rimane in questo modo avvolto da un’aura di mistero che non fa altro che aumentarne il fascino. Secondo la tesi prevalente, il capolavoro sacro di Pergolesi sarebbe stato commissionato nel 1734 dall’Arciconfraternita della Beata Vergine dei Dolori, che in questo modo voleva sostituire con un’intonazione più moderna il celebre Stabat Mater di Alessandro Scarlatti, che veniva eseguito da ormai un ventennio, un lasso di tempo insolitamente lungo per l’epoca, tutti i venerdì di marzo nella Chiesa di San Luigi di Palazzo.
La devozione di Maria ai piedi della croce aveva trovato ulteriore linfa nel 1727, quando papa Benedetto XIII istituzionalizzò la Festa dei Sette Dolori di Maria Vergine, in seguito divenuta uno degli eventi più importanti del periodo quaresimale napoletano. Secondo altri studiosi, tra cui Francesco Degrada, prima dell’Arciconfraternita della Beata Vergine dei Dolori, lo Stabat Mater pergolesiano era stato richiesto dalla Congregazione de’ Musici, cui apparteneva lo stesso compositore jesino, che alcuni memorialisti dell’epoca definiscono religiosissimo. Sotto il profilo stilistico, quest’opera incarna una religiosità decisamente proiettata verso il futuro, che con la sua vena melodica e la sua struttura fluida si contrapponeva alla compunzione un po’ rigida dello Stabat Mater di Scarlatti che si apprestava a sostituire, pur ricalcandone fedelmente l’organico.
Dopo una breve introduzione strumentale dalla soffusa tristezza, che alcuni commentatori hanno voluto paragonare alla serena e rassegnata compostezza del Requiem composto da Mozart oltre mezzo secolo più tardi, il soprano e il contralto intessono un dialogo fitto e incalzante, le cui dissonanze contribuiscono a creare un’atmosfera di sottile drammaticità, che sfocia nella prima aria del soprano («Cujus animam»), sconvolgente raffigurazione musicale del desolato sconforto della Madre che vede suo Figlio appeso alla croce, porta e veicolo di salvezza dell’Umanità. In particolare, in quest’aria Pergolesi riesce a evocare con insuperabile incisività l’immagine della spada che trafigge il cuore della Vergine preconizzata da Simeone (Lc 2, 35).
Questa espressione di dolore – nella quale Pergolesi accomuna tutto il genere umano – si stempera nel successivo duetto «O quam tristis et afflicta», nel quale il soprano e il contralto ‘elaborano’ il lutto con trasognata compostezza, dalla quale – anche grazie alle sospirose figurazioni degli archi – sembra emergere il dolce fiore della speranza della redenzione. Questa sensazione viene rafforzata dalla prima aria del contralto («Quae moerebat»), che passa con disinvoltura dal compianto del sol minore alla baldanzosa vitalità del mi bemolle maggiore sottolineata da una bella melodia dal ritmo sorprendentemente sincopato.
Dopo questa parentesi serena (ritenuta dai critici più severi incongrua con il carattere elevato e solenne dell’opera), Pergolesi ci riporta alla contemplazione di Maria ai piedi della Croce con il duetto «Quis est homo», il cui tono grave, vagamente melodrammatico e pregno di angosciosi interrogativi espressi dai ripetuti «Quis non possit contristari?», prosegue con l’aria del soprano «Vidit suum», la cui vibrante animosità si ricopre di tinte più cupe, spegnendosi in singulti sul «Dum emisit spiritum». Questa perorazione viene proseguita dal contralto nell’aria «Eja Mater», con un’invocazione a Maria, definita con delicato lirismo «fons amoris».
Con il duetto «Fac ut ardeat» la contemplazione dei dolori della Vergine lascia spazio a una sublime preghiera, che raggiunge il vertice nello sguardo devoto rivolto – non senza qualche dolorosa, umana esitazione – alle piaghe del Salvatore sulla Croce, prima di chiudere con il duetto «Quando corpus morietur», desolata presa di coscienza della fragilità umana sorretta dalla forza tanto sottile quanto invincibile della fede e sancito da un animoso Amen fugato che pone il sigillo dell’eternità sulla parabola artistica e umana di Giovanni Battista Pergolesi.
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