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26 Marzo 2021 - 23:20
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Proprio durante gli incontri, anche conviviali, nella sua abitazione, e in quelli alle Molinette, comune luogo di lavoro, hanno avuto luogo le lunghe conversazioni tra Marina Rota e Mauro Salizzoni, focalizzate principalmente sulle sue due passioni: i trapianti e la corsa. Il volume si propone di sottolineare non soltanto la sua eccezionalità professionale, riconosciuta in tutto il mondo, ma anche il suo spessore umano: la dedizione quasi calvinista alla sua attività, la temperanza nell’affrontare ogni tipo di difficoltà, l’orgoglio del lavoro ben fatto, il senso del dovere. Mauro Salizzoni, “il mago dei trapianti di fegato”, ha voluto dedicare questa sua biografia agli ultimi, ai dimenticati: ai donatori, che concedono ad altri l’opportunità di una nuova vita. La voglia di sfidare se stesso, di proseguire nonostante tutto, non lo ha mai abbandonato. La sensazione di compiutezza, di felicità, che prova arrivando in cima al Mombarone, non lo ha indotto soltanto a partecipare sempre alla gara, ma lo ha anche stimolato a mettere in gioco tutto se stesso nella sua vita professionale, per vincere sfide sempre nuove, sul percorso altrettanto impervio della Chirurgia; quella che avrebbe condotto alle soluzioni migliori per i suoi pazienti. Il Mombarone è la storia delle storie; è il suo centro di gravità. È la sua irrinunciabile vita parallela: i ricordi del Mombarone sono strettamente intrecciati alla sua vita professionale. Senza il Mombarone, forse, – come dice lui stesso, – non avrebbe fatto più di tremila trapianti. PREFAZIONE In un giorno imprecisato del 1651 il fabbro olandese Jan de Doot allontanò sua moglie mandandola al mercato del pesce, impugnò con la mano destra un coltello da cucina che aveva preventivamente affilato, incise la propria regione perineale e ne estrasse un calcolo della vescica grande come un uovo dal peso di 110 grammi. Si liberò così da un dolore lancinante che non riusciva più a sopportare. La vicenda compare nelle Observationes medicae di Nicolaes Tulp, edizione del 1672, dove il nome del fabbro è latinizzato in Joannes Lethaeus in quanto “doot”, in olandese, significa “morto”. Per fortuna, in questo caso “nomen” non fu “omen”. Le fonti sono contraddittorie, ma pare che Jan de Doot sia poi vissuto in buona salute per almeno cinque anni, perché un quadro dipinto da Carel van Savoyen nel 1655 lo ritrae vestito a festa nell’atto di mostrare fieramente il calcolo in una mano e il coltello nell’altra. Risulta che alla scena cruenta assistette il fratello, che però non ebbe parte attiva: Jan fece tutto da solo, e con una sola mano. Qui si capisce perché Luciano De Crescenzo, che era ingegnere informatico e filosofo dilettante, interrogato su quale fosse secondo lui la più grande invenzione di tutti i tempi, rispose “l’anestesia”. Fu un odontoiatra americano, William Morton, a introdurre l’uso dell’etere per una estrazione dentaria il 30 settembre 1846, due secoli dopo l’intervento del fabbro sulla propria vescica. Fino ad allora la chirurgia fu strazio, per non parlare dell’esito spesso drammatico degli interventi. Questi aneddoti mi sono ritornati alla mente leggendo la straordinaria avventura scientifica e umana di Mauro Salizzoni. Perché nella chirurgia, forse ancora più che in altri campi, si può apprezzare la formidabile accelerazione del progresso. Certo, è sorprendente che soltanto 66 anni intercorrano tra il primo volo dell’aereo dei Fratelli Wright – una decina di metri su una spiaggia della Florida – e lo sbarco di Neil Armstrong sulla Luna. Ma che dire dell’evoluzione dei trapianti di fegato dal primo infelice esperimento di Thomas Starzl nel 1963 alla tecnica dello “split” (divisione) che dal 1988 permette di salvare due pazienti – di solito un adulto e un bambino – suddividendo il fegato di un singolo donatore? Nato a Ivrea nel 1948, Salizzoni ha attraversato da protagonista un’epoca gloriosa della chirurgia. Ripercorrere la sua carriera significa costeggiare l’intera epopea dei trapianti di fegato. L’anagrafe mi ha assegnato quattro anni più di lui, e il lavoro di giornalista scientifico mi ha portato, sia pure indirettamente, a seguire passo dopo passo questa epopea: dai primi trapianti realizzati con buoni dati di sopravvivenza ma ancora esposti a una difficile vita post-operatoria alla introduzione della ciclosporina come decisivo farmaco antirigetto; dal primo “split” tentato da Rudolf Pichlmayr agli acrobatici trapianti multi-organo e “domino” – eseguiti in simultanea tra due persone delle quali una donatrice vivente, in modo che ne beneficiano entrambe utilizzando un solo fegato donato da cadavere – fino agli ultimi sviluppi tecnologici e scientifici, tuttora in corso. Il fegato è il più massiccio dei nostri organi (il cervello è al secondo posto: dato su cui riflettere), il più irrorato dal sangue, uno dei più complessi per le funzioni vitali che svolge, misteriosamente capace di rigenerarsi. Nell’avvicinarmi al mondo dei trapianti epatici, importante per me fu l’incontro con Luigi Rainero Fassati, altro pioniere del settore, ordinario di Chirurgia sostitutiva all’Università di Milano, autore di centinaia di pubblicazioni e anche di romanzi di successo. L’ho avuto tra i collaboratori del supplemento Tuttoscienze a La Stampa e poi tra i conferenzieri di GiovedìScienza. Fu lui a spiegarmi che all’inizio i trapianti di fegato, oltre ad essere molto faticosi per la durata (e lo sono ancora), spesso per il medico erano anche frustranti perché i pazienti arrivavano in sala operatoria come all’ultima spiaggia, in condizioni così disperate da rendere improbabile la sopravvivenza nonostante la perfetta esecuzione dell’intervento. Marina Rota ha ricostruito le imprese di Mauro Salizzoni con sensibilità, competenza ed eleganza letteraria. Le interviste che ha raccolto restituiscono una figura a tutto tondo, nella quale doti professionali, rigore morale, carisma, piglio organizzativo, impegno politico, affetti familiari, visione solidale, passione sportiva (le mitiche corse da Ivrea alla cima del Mombarone, ma anche la bicicletta e l’alpinismo) sono aspetti inscindibili della sua personalità. La formazione chirurgica di Salizzoni segue tappe insolite. Dopo la laurea all’Università di Torino nel 1973 e la specializzazione in chirurgia toraco-polmonare, decide di dedicarsi al trapianto di fegato proprio “perché è difficile”. Va a Parigi presso la clinica diretta da J.N. Maillard, dove impara che un chirurgo deve saper rischiare purché lo faccia sempre e solo a favore del paziente. Poi per due anni va in Vietnam ospite del reparto di Nguyên Duong Quang, dove trova pochi mezzi ma grandi capacità professionali. Nel 1985 si sposta a Bruxelles per tre anni alla scuola di Bernard Otte (Università di Lovanio) e nel 1997 (insieme con Rainero Fassati) completa l’iter formativo apprendendo il trapianto da donatore vivente a Kyoto: in Giappone motivi religiosi impediscono il prelievo di organi da cadaveri e quindi si è sviluppata questa tecnica alternativa. Negli Stati Uniti, infine, Salizzoni ha fatto esperienza sul trapianto di intestino e pancreas con Tzakis a Miami e con Ron Shapiro sul trapianto combinato rene-pancreas a Pittsburgh. Seguendo questo percorso di formazione permanente (“Non si finisce mai di imparare: la tomba sarà il mio diploma”, diceva Eartha Kitt, attrice, cantante jazz, cabarettista), si scoprono realtà insospettabili. Colpisce, per esempio, che Salizzoni abbia appreso la resezione epatica eseguita con le dita (più rapida e con minore sanguinamento) in Vietnam, nell’ospedale di Hanoi, dove, per rimediare alle frequenti interruzioni dell’elettricità, i medici erano costretti a pedalare vigorosamente su biciclette che facevano girare non le ruote ma una dinamo. Epica la lotta per mettere in piedi il Centro Trapianti di Fegato all’ospedale Molinette di Torino. Tutto incomincia con mezzi di fortuna nell’ottobre del 1990 tra lo scetticismo di molti colleghi, ma poi la Direzione capisce l’importanza strategica di investire in questo reparto di eccellenza e, grazie a una équipe fortemente motivata e al sacrificio di tutti, il Centro si afferma tra i cinque migliori del mondo (valutazione dell’Università di Heidelberg, 2011). Nel 1998 il Centro delle Molinette era stato il primo in Italia a ricevere il cosiddetto “fegato artificiale”, dispositivo di supporto per pazienti colpiti da insufficienza epatica fulminante fino ad allora disponibile solo a Boston e a Parigi. Dopo un esordio timido e prudente, si programma un trapianto al mese, ma a pieno regime si arriverà a superare i 150 trapianti in un anno. Il millesimo è segnato da una coincidenza quasi incredibile: tocca al fratello di colui che il 10 ottobre 1990 era stato il primo destinatario di trapianto epatico all’Ospedale Molinette, un paziente di 44 anni colpito da epatite virale, che sopravvivrà per 13 anni. Il 17 luglio 2017 l’équipe di Salizzoni taglia il traguardo di tremila trapianti, 126 dei quali con tecnica “split”, 57 in combinazione con altri organi (rene, pancreas, polmone), 14 da donatore vivente, 6 con tecnica domino. Poco più di un anno dopo, il 1° novembre 2018, per Salizzoni con cecità burocratica arriva inesorabilmente il giorno del pensionamento: scadenza vissuta come un lutto, attenuato soltanto dalla consapevolezza di lasciare una équipe che terrà alta la fama conquistata in trent’anni di successi. Rimarrà in ogni caso l’imprinting del Maestro, anzi, del Capo. Con lui, severo con sé stesso prima ancora che con i collaboratori, la tensione di un lavoro drammatico – in sala operatoria il sangue scorre al punto da rendere necessari gambali di gomma – ed esposto a improvvisi cambi di scena tra la vita e la morte, si stemperava in rituali rasserenanti, come quando si assisteva al miracolo di un fegato esangue che riprende vita e ricomincia a formare la bile, o quando durante l’intervento il succedersi delle fasi operatorie veniva scandito da un sottofondo musicale di canzoni che, con la loro durata prestabilita, aiutavano a mantenere la tabella di marcia. Marina Rota ha selezionato una serie di testimonianze che immergono il lettore nella concreta e molteplice quotidianità del Centro. Incontriamo il caposala Diego Borgarino, la collaboratrice amministrativa Alessandra Cibelli, la caposala del Day Hospital e del Coordinamento Trapianti Libera Del Duca, la responsabile della sala operatoria Mirella Lepore, la caposala della terapia semi-intensiva Simona Marengo; e poi i pazienti: spiccano Antonio Vitulano, salvato due volte da altrettanti trapianti di fegato, un bambino operato a pochi mesi e ora diciassettenne, l’amico Sergio Chiamparino e, naturalmente, la moglie Maria Cavallo Perin che dall’età di 17 anni segue e appoggia Mauro nelle sue sfide. Sullo sfondo, echi del ‘68, con le lotte anti-baronali, le comuni, assemblee e manifestazioni di piazza. Duecento pubblicazioni e una ventina di prime assolute disegnano la traiettoria di questo maestro della chirurgia. Ricordiamo qualche data saliente. Nel 1994 per la prima volta viene applicata a Torino la tecnica “split”. Nel 1995 si esegue per la prima volta in Italia e la settima nel mondo un trapianto di fegato al buio su un paziente affetto da protoporfiria che sarebbe stato in pericolo di vita se investito dalla luce della lampada scialitica in uso nelle sale operatorie. Nel 2003 su una bambina di appena 8 mesi viene eseguito in 13 ore un trapianto da donatore vivente. Ancora nel 2003 avviene in Italia il primo trapianto di fegato donato da un soggetto che aveva già avuto, vent’anni prima, un trapianto di cuore. Del 2009 è il primo trapianto in Italia di due polmoni e fegato. Nel 2015 viene effettuato un intervento di 17 ore su una bambina di cinque mesi. Dello stesso anno è un doppio trapianto di midollo-fegato, il primo in Italia e il secondo nel mondo, su un paziente con Sindrome da iper-IgM (forma di immunodeficienza di origine genetica). Questo lungo susseguirsi di imprese ha insegnato molte cose sulla chirurgia del fegato. Nuove tecniche operatorie sono state esplorate, si è imparato a ricondizionare l’organo da trapiantare perfondendolo a temperatura corporea; si è scoperto che il trapianto è indicato anche in età avanzata, in bevitori e malati oncologici. Ma la scoperta più stupefacente è che il fegato, l’“alchimista silenzioso”, come lo definisce l’Ode al fegato di Neruda, riportata in chiusura da Marina Rota, è quasi immortale. Fino a una ventina di anni fa si utilizzavano esclusivamente fegati provenienti da donatori giovani. Ora sappiamo che una persona anziana può avere un fegato in perfetta efficienza, così succede che attualmente 4 donatori su 10 hanno più di settant’anni. Il risultato è il paradosso dei “fegati centenari” che vivono in pazienti ancora relativamente giovani. Il record per ora è di un fegato di 103 anni che continua a fare bene il suo lavoro. Il trapianto, naturalmente, è avvenuto a Torino grazie all’équipe di Mauro Salizzoni.Piero Bianucci
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