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27 Giugno 2018 - 12:44
Carcere di Ivrea
Rahal Fantasse, di origine marocchina, aveva 43 anni. Si è ucciso la scorsa settimana impiccandosi con un lenzuolo legato alle grate della finestra di una cella del carcere di Ivrea dopo aver ricevuto la notizia di una sentenza di condanna definitiva a 15 anni e sei mesi per l’omicidio della moglie Anna Carlucci, 46 anni. A coltellate in una casa ubicata nel quartiere Tanaro ad Asti
I fatti risalgono alla mattina del 14 settembre 2015. Dopo l’omicidio l’uomo si era anche accanito sul suocero, intervenuto in difesa della figlia, e lo aveva ferito. Poi si era barricato in casa fino a quando i carabinieri non lo avevano arrestato.
Nel primo interrogatorio si era difeso dicendo di aver agito perché la moglie lo tradiva, cosa tra l’altro non vera, come hanno appurato gli investigatori. I giudici gli avevano riconosciuto la semi-infermità mentale accogliendo la tesi del medico legale e criminologo Gianluca Novellone, che aveva individuato un “disturbo paranoide di personalità” dovuto all’ossessione del tradimento coniugale.
E dopo il suicidio dell’uomo in carcere a Ivrea è divampata la protesta e alcuni detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella, si sono arrampicati sul muro del cortile passeggi per poi lamentarsi delle condizioni in cui vivono. Sono scesi da lì solo dopo oltre due ore di trattativa.
Sull’episodio è prontamente intervenuto Donato Capece, segretario generale del SAPPE (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria).
““Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze - ha detto Capece - Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante e questo nuovo drammatico suicidio evidenzia come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria a gestire situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati.
Netta è la denuncia del SAPPE sulle cricità nelle carceri del Paese: “Da tempo il SAPPE denuncia, inascoltato, che la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto. Non aiuta l’aver tolto le sentinelle della Polizia Penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta, la mancanza di personale, il mancato finanziamento per i servizi anti intrusione e anti scavalcamento. Lasciare le celle aperte più di 8 ore al giorno senza far fare nulla ai detenuti è controproducente perché li lascia nell’apatia: non riconoscerlo vuol dire essere demagoghi ed ipocriti. La realtà è che sono state smantellate le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali, con detenuti di 25 anni che incomprensibilmente continuano a stare ristretti in carceri minorili. Mancano Agenti di Polizia Penitenziaria e se non accadono più tragedie di quel che già avvengono è solamente grazie agli eroici poliziotti penitenziari, a cui va il nostro ringraziamento.
Nelle carceri c’è ancora tanto da fare: ma senza abbassare l’asticella della sicurezza e della vigilanza, senza le quali ogni attività trattamentale è fine a se stessa e, dunque, non organica a realizzare un percorso di vera rieducazione del reo”.
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