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02 Novembre 2016 - 14:54
parroco
Si sono svolti domenica scorsa, nel cimitero di Platì, in forma privata e senza corteo funebre, i funerali di Giuseppe Barbaro, 54 anni, affiliato all’omonima cosca di ‘ndrangheta, morto il giovedì prima, nel carcere di Vibo Valentia.
Condannato definitivamente a 5 anni nell’ambito del processo “Minotauro”, Giuseppe Barbaro “U cenni”, detto anche “bambolotto” era uno dei personaggi di spicco del locale di Volpiano e solo pochi giorni prima (il 30 settembre) era comparso in tribunale a Ivrea per rispondere di una partita di droga, circa mezzo chilo di cocaina.
Secondo alcuni pentiti, sarebbe stato un santista, dedito allo spaccio di droga e alle estorsioni.
Affetto da diverse patologie croniche, aveva presentato tramite i suoi legali, un’istanza di scarcerazione, rigettata sulla base del responso dei periti, secondo i quali Barbaro poteva essere curato in carcere.
Ma non è su questo che, la scorsa settimana, è divampata la polemica. Ad accendere la miccia il litigio tra un parroco e il questore di Reggio Calabria intorno ai funerali che in base alle disposizioni di quest’ultimo si sarebbero dovuti celebrare in forma strettamente privata stando “ai trascorsi giudiziari e allo spessore criminale del defunto ed a garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica”.
Quando il parroco di Platì, Don Giuseppe Svanera, lo ha saputo gli è subito venuto un Cristo e si è rivolto al Ministero degli Interni Angelino Alfano con un ricorso. Poi si è messo a rilasciare interviste a destra e a manca.
“Non era un ergastolano, né un omicida ed in più era molto malato - ha detto - Purtroppo la sua richiesta di essere scarcerato per motivi di salute non é stata presa in considerazione”.
Insomma, senza farla lunga, l’ordinanza secondo il parroco avrebbe infranto il principio di non ingerenza fra Stato e Chiesa nell’ambito delle rispettive sfere di autonomia, di cui art. 7 della Costituzione.
Ed a rinforzare il concetto, da fine giurista, il parroco si è messo a citare sentenze in base alle quali il questore può vietare solo le funzioni e le cerimonie praticate fuori dai luoghi destinati al culto.
Non ancora completamente soddisfatto, Don Giuseppe, che é originario di Ome, in provincia di Brescia ed é da due anni parroco di Platì, ai funerali in forma privata ha aggiunto una funzione religiosa in memoria del defunto e la gente, in chiesa, si è riversata lo stesso.
“Ho fatto tutto quello che c’era scritto nell’ordinanza - ha poi commentato - Personalmente non sono d’accordo che un questore possa proibire un funerale in chiesa. Un corteo lo può proibire senza nessun problema, ma in chiesa non comanda lo Stato. E dato che questo signore era battezzato e i familiari volevano i funerali in chiesa, io i funerali li faccio in chiesa, piaccia o non piaccia al questore. Non è lui che deve dare ordini. Abbiamo fatto la messa senza il corpo, però l’abbiamo fatta...”.
Morale del parroco: “La ‘ndrangheta è una questione dei giudici, dei carabinieri e degli avvocati. Che facciano il loro lavoro. Io faccio il mio. Qui ci sono almeno 600 o 700 persone di cognome Barbaro. Chi sono i criminali lo devono sapere i carabinieri. Io so che ci sono queste persone, li attendo quando vengono in chiesa, vado a visitarli. Io di mafia so solo quello che scrivono i giornali. Per me un mafioso ha gli stessi diritti di una persona che non lo è”.
E se per il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho non ci sono dubbi su come in certi territori la Chiesa sia sottomessa alle cosche, perchè la sua forza sta anche nelle elargizioni per il vescovo di Locri Francesco Oliva l’ordinanza è stata rispettata. “Pregare per un defunto – ha detto il vescovo – chiunque esso sia, anche un delinquente, si fa sempre. Si è sempre fatto così. Se non possiamo neanche pregare… a questo punto chiudiamo le chiese...”.
E se una preghiera non si nega a nessuno.... ben venga una preghiera anche per Barbaro, descritto con incredibile puntigliosità dal pentito Rocco Varacalli. “Mi aveva chiesto - ha dichiarato ai magistrati - di fare un’estorsione a una ditta che si occupava di un cantiere tra Settimo e Volpiano. Se non mi avessero pagato, avrei dovuto incendiare i mezzi oppure sparargli alle gambe al titolare”.
Di tutt’altro avviso Papa Francesco che i mafiosi li ha scomunicati nel giugno del 2014, proprio durante un viaggio in terra di Calabria.
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