Il racconto di un omicidio, mai dimenticato in Canavese
E’ il 23 agosto del 1993. E’ un caldo pomeriggio d’estate in Canavese, nel pieno delle vacanze, ma da tre settimane non si parla d’altro, alla tv e alla radio. Si parla della quindicenne di Strambino scomparsa alla fermata di un bus senza lasciare traccia. Un caso eclatante. Talmente eclatante da essere su tutte le cronache quanto lo è stato, nell’ultimo periodo, l’omicidio della professoressa di Castellamonte Gloria Rosboch.
Sono da poco trascorse le 17 quando il capitano Casale, comandante dei carabinieri della Compagnia di Ivrea, rivolge gli ultimi ordini agli uomini di due pattuglie in attesa. Tempo di una mezz’ora. I militari ritornano in caserma con il presunto colpevole: Pietro Ballarin, detto “Ringo”. A bordo, sull’automobile della pattuglia, insieme al 27enne, ci sono la moglie e il bambino di pochi anni. Scattano le manette ai polsi dello zingaro, tra i volti soddisfatti degli investigatori dell’Arma. Dopo settimane di ricerche e di indagini il cerchio si è chiuso.
A dare una svolta è la testimonianza di Barbara, una supertestimone. Sostiene di aver visto Manuela Petilli Marchelli, quel pomeriggio del 2 agosto 1993, salire sul sellino di una moto guidata da un giovane.
Si fa strada una prova più solida, dunque, dopo gli iniziali sospetti. La donna descrive in maniera lucida l’autista di quel motorino. “Uno che aveva un aspetto strano, sembrava uno zingaro…”.
Una descrizione talmente puntuale che al capitano Casale occorre soltanto una rapida ricerca per individuare “Ringo”. Il giovane, d’altronde, è già noto alle forze dell’ordine per precedenti e analoghi crimini. Ha solo 27 anni ma di cui otto già passati in carcere, dietro le sbarre.
Nel 1984, insieme al fratello, aveva già aggredito e seviziato due piccoli rom, i cugini Nescho e Kringla, entrambi di soli 10 anni. Una storia di violenza inaudita stando ai ricordi degli investigatori. L’aggressione sarebbe avvenuta sulle sponde dell’Orco, dopo un casuale incontro. Ringo e il fratello avrebbero sorpreso i due bambini, picchiato il maschio, senza pietà alcuna. Poi avrebbero tentato di violentare e strangolare la piccola, usando una maglietta. Vivi per miracolo, i due cugini erano ritrovati poche ore più tardi, spaventati a morte e feriti, tra i rovi di una discarica. Per questi fatti un anno più tardi Pietro Ballarin era stato condannato a dodici anni di reclusione, scontandone soltanto otto.
E’ il 1992 quando esce di galera. Tornato in libertà, come sorvegliato speciale, deve firmare, una volta alla settimana, il lunedì, il registro nella caserma dei carabinieri di Ivrea.
Nel 1993 torna ad abitare al campo nomadi della frazione San Giovanni d’ Ivrea. Sposato, papà di un bambino. E’ disoccupato. Per barcamenarsi ripara anche motorini. Ed è in questo contesto che conosce Paolo Lombardi, il fidanzatino di Manuela Perilli Marchelli. I tre si frequentano. Forse la conoscenza diventa amicizia. Tanto che la giovane accetta un passaggio, quel 2 agosto di 13 anni fa, per tornare a casa. Fors’anche perché gli zingari frequentano in quel periodo il locale della madre di Manuela, tanto a dare una mano nelle indagini, nei giorni successivi. “Si sono offerti loro” preciserà la donna nei giorni successivi.
Su Ringo confluiscono fin dall’inizio i sospetti della polizia. Il 5 agosto, tre giorni dopo la scomparsa di Manuela, viene interrogato per ben due volte dal capo della Squadra Mobile di Ivrea, il vicequestore Maurizio Celia, e la seconda risponde in maniera contraddittoria ma non abbastanza per essere accusato. Gli zingari del campo lo difendono: “è stato tutto il giorno a casa il 3 agosto”.
“Era con nostro figlio mentre io gestivo il banco di biancheria al mercato di Ivrea” la versione della moglie Loredana Lagaren. Che aggiunge: “non esce mai dal nostro accampamento se non per andare a comprare le sigarette in un negozio poco lontano o per cercare lavoro all’ ufficio di collocamento…”.
Mentre la supertestimone, a due settimane dalla scomparsa, decide di raccontare quello che ha visto, il questore di Torino, Carlo Ferrigno, effettua un ennesimo sopralluogo nella “casa del mostro”, come viene definito il capannone abbandonato in frazione Cerone di Strambino, luogo di ritrovo dei tossicodipendenti di tutta la zona, dove, 17 giorni dopo la scomparsa, il 20 agosto, viene trovato il cadavere semicarbonizzato dalla ragazza.
Il 23 agosto il fermo viene trasformato in arresto. Ballarin finisce in carcere anche il cognato, Giovanni Lagaren, 22 anni, che avrebbe avuto un ruolo marginale. Ringo, interrogato per ore dal sostituto procuratore della Repubblica Lorenzo Fornace, continua a respingere ogni accusa, e lo farà fino alla fine, per tutta la durata del processo, in cui è assistito dall’avvocato Ferdinando Ferrero del foro di Ivrea.
Il 12 gennaio del 1995 la Corte d’Assise di Ivrea lo condanna all’ergastolo. Viene però clamorosamente assolto dal reato di stupro. Eppure, secondo l’accusa, doveva essere quello il movente: per la Procura Ringo avrebbe ucciso la ragazza perché si era negata a lui.
Solo nell’agosto del 2013, dal carcere le Vallette di Torino, dove è rinchiuso, tramite il Tribunale del Riesame, Ballarin chiede perdono alla madre della giovane vittima. Qualche tempo più tardi chiede la semilibertà.