Fallimento. La parola sinistra che da mesi aleggiava sopra la ex-ILCAS di Sparone e sopra le teste dei suoi lavoratori , delle loro famiglie e dell’intera Valle Orco, da triste presagio si è trasformata in cruda realtà. Dopo due rinvii, il Tribunale di Torino si è pronunciato in modo definitivo, respingendo la proposta di concordato e dichiarando il fallimento della IMS. E’ accaduto giovedì 3 marzo e la notizia è stata data il giorno successivo dalla FIOM-CGIL attraverso un comunicato-stampa. Per ora non si conoscono i dettagli; si sa solo il nome del curatore fallimentare: Fabrizio Torchio, che si era già occupato del Concordato IMS. La IMS faceva parte del Gruppo Pepe di Leinì ed aveva rilevato una decina di anni fa gli stabilimenti di Sparone e di Druento usufruendo di notevoli agevolazioni per rimetterli in sesto dal punto di vista finanziario. Lo scorso anno, finiti gli incentivi senza che le casse fossero risanate, si era profilato il fallimento; per cercare di scongiurarlo (o forse solo di ritardarlo?) si era deciso di affittare per tre anni alla MTD - società del Gruppo Umbro Tiberina - gli stabilimenti citati, che impiegano in tutto 230 dipendenti. Tale scelta doveva tuttavia ottenere l’avallo del Tribunale che, dopo aver respinto per ben due volte le proposte formulate perché non convincenti, ha infine preso la sua decisione, ritenuta da più parti inevitabile. “Ormai – sostengono fonti informate – era chiaro che si voleva arrivare al fallimento”. Quel che un tempo era uno spauracchio per qualsiasi imprenditore, un autentico marchio d’infamia, oggi viene non solo accettato disinvoltamente ma deliberatamente ricercato perché conveniente quando ci si vuole togliere da un impiccio. Naturalmente nell’impiccio ci finiscono i lavoratori ma questo è del tutto secondario. Le incognite per i lavoratori Riusciranno i lavoratori a mantenersi uniti ed a mostrarsi battaglieri, almeno in questo momento di non ritorno? E’ una domanda che desta qualche preoccupazione in quanti conoscono la realtà di quell’azienda e la storia dei rapporti fra le parti. A differenza dei paesi dall’industrializzazione precoce – come Pont – a Sparone il rapporto tra imprenditori e lavoratori è rimasto a lungo caratterizzato da uno spiccato paternalismo. E questo era ancor più vero per quanto riguardava l’allora ILCAS. I proprietari di quell’azienda non erano i datori di lavoro ma i “padroni” ed assumevano nei confronti dei propri dipendenti un atteggiamento insieme autoritario ed amichevole: nel caso dei più giovani s’intromettevano con pareri e consigli anche nella loro vita extralavorativa. Però erano generosi con le mance e pronti ad ascoltare i problemi dei dipendenti, sia pure per risolverli a modo loro. Paternalismo allo stato puro, insomma, che veniva accettato di buon animo: un po’ per deferenza e un po’ per convenienza. Il padrone era il padrone, il suo compito era comandare, aveva diritto di intromettersi. D’altra parte si sapeva anche che, per quegli imprenditori, l’azienda era una missione: la loro ottica era quella della crescita, non dei licenziamenti, ed i salari erano buoni. Quanti erano abituati a realtà più evolute storcevano il naso (erano gli anni successivi all’ ”Autunno Caldo”) ma quel modo di impostare i rapporti si confaceva alla mentalità dei contadini trasformatisi in operai da un giorno all’altro oppure di operai abituati al lavoro duro ed ai bassi stipendi delle “boite” di paese. In fondo era più gratificante ricevere una mancia che un aumento di stipendio, ottenere un privilegio che esercitare un diritto: ci si sentiva importanti. Non a caso i sindacati, negli anni di maggior successo della ILCAS, lì non entravano e la maggior parte dei dipendenti …ne era orgogliosa. Poi gli scenari sono cambiati completamente, l’era degli imprenditori si è esaurita ed è arrivata quella degli uomini d’affari, ai quali importa delle proprie tasche, non delle vite altrui. Sono trascorsi più di quarant’anni da quando Sparone divenne un centro industriale ed alla ILCAS- poi ITCA-poi IMS-poi MTD, si sono succedute diverse generazioni di lavoratori. Tuttavia l’atteggiamento è rimasto ancora in parte quello volutamente fiducioso e passivo di chi è in fondo convinto che i “padroni” agiscano sempre in buona fede, che non possano tradire la fiducia riposta in loro, che sia meglio non inimicarseli e non esporsi E permane l’individualismo un po’ egoistico e molto pericoloso di chi dice: “Tanto licenzieranno gli altri, a me non capiterà”. Poi, un brutto giorno, capita. Fallimento IMSI rischi per il paese Se chiudesse del tutto la ex-ILCAS sarebbe a rischio l’economia dell’intera Valle Orco ma Sparone rischierebbe una destabilizzazione ben più ampia, con ripercussioni in ogni settore della vita economica e sociale. Mancherebbe la possibilità di assorbire i senza lavoro in altre realtà produttive della zona, con il probabile trasferimento di intere famiglie. Il che, tradotto in termini pratici, vorrebbe dire aumento delle abitazioni vuote, diminuzione della popolazione scolastica, negozi ancora più in crisi. Per Sparone le prospettive rischierebbero di essere molto fosche anche perché - inutile negarlo - la presenza di questo stabilimento ha segnato in modo irrimediabile il volto del paese e continuerà a condizionarne il futuro, con i segni pesanti ed incancellabili che gli ha impresso. Quello che fino al 1972 era un quieto paese di bassa montagna circondato dal verde ha cambiato aspetto con e per quella fabbrica. Le piccole officine che esistevano in precedenza avevano un impatto limitato alle zone immediatamente circostanti mentre la Manifattura Valle dell’Orco riproponeva i modelli olivettiani di inserimento “morbido” nel contesto esistente (il discorso ovviamente non vale per la ricostruzione avvenuta in tempi più recenti e rispondente a criteri esattamente opposti). Quando arrivò la ILCAS le cose cambiarono. Tutta la fascia di prati che separava il nucleo centrale del paese dalla strada statale venne rapidamente cementificata: prima i capannoni, poi le villette, poi i condomini, poi ancora altri capannoni, mentre la produzione lievitava ed i dipendenti aumentavano. Il risultato fu la creazione di una zona industriale ampia e di innegabile impatto visivo. Il problema delle trasformazioni urbanistiche è che, una volta avvenute, rimangono. Anche se le industrie se ne vanno. E rappresentano un’ipoteca pesante rispetto alle pur contenute possibilità offerte dal turismo. Finché i brutti capannoni al posto dei bei prati hanno significato ricchezza non sono stati in molti a rimpiangere quella trasformazione ma se rimanessero vuoti diventerebbero un grosso problema per il paese anche per le difficoltà di un loro eventuale riutilizzo con diverse funzioni. Com’è tipico delle strutture di quell’epoca, sono gelidi d’inverno e bollenti d’estate, sono invecchiati precocemente ed hanno pure i tetti in eternit: problemi facilmente risolvibili nel caso di un’azienda operativa (ci sono i contributi per queste ristrutturazioni) ma quasi irrisolvibili se una struttura è in abbandono. Anche per questo c’è da augurarsi che in quello stabilimento si continui a produrre.
IMS: dov’è la sorpresa? Bellino: “Siamo in credito con FCA”
Non si può parlare di sorpresa, almeno per quanti guardano alla realtà dei fatti con occhi disincantati ma questo nulla toglie alla gravità della situazione. Forse i lavoratori avrebbero dovuto bloccare la produzione in autunno, come aveva suggerito Fabrizio Bellino, il responsabile della FIOM-CGIL. Fermarsi allora avrebbe messo la FCA in difficoltà, causando il blocco della produzione per la Maserati in un momento in cui il mercato andava bene: “Si lavorava su tre turni – dice Bellino – mentre ora, sia a Torino che a Modena, si effettuano due settimane al mese di Cassa Integrazione. Inoltre non sarebbe stato possibile spostare altrove la produzione di Sparone: lo stabilimento di None era in fase di sistemazione mentre ora è pronto”. C’è ancora spazio per intervenire? Sì ma ovviamente meno di qualche mese fa. L’IMS non c’è più e dovrà saldare i creditori, dipendenti compresi. E su questo i lavoratori rischiano molto: nell’accordo sottoscritto la scorsa estate, al momento del passaggio da un’azienda all’altra, avevano accettato una condizione-capestro: quella che TFR, Permessi e Tredicesime dovessero essere pagati dalla IMS e non dall’azienda subentrante. Eppure la IMS non aveva soldi… “Per questo mi ero rifiutato di firmare - ricorda Bellino – Ora il TFR rischia di essere pagato dall’INPS e quindi da tutti noi; i soldi di Permessi e Tredicesime di andare perduti”. Cosa si può fare invece? “Intanto far continuare il lavoro nei due stabilimenti, cosa che il curatore può stabilire. Esiste un contratto d’affitto tra il Gruppo Pepe ed il Gruppo Tiberina: non ne conosciamo le clausole, trattandosi di un contratto tra privati, ma riteniamo che vada rispettato. In secondo luogo gli accordi prevedevano il rientro di tutti i dipendenti: finora non era avvenuto ma questo è quanto si era stabilito. Chiederemo che si continui a lavorare: le commesse ci sono”. Quali sono i rischi più gravi per i lavoratori? “Che siano stati compresi nel Fallimento - sottolinea Bellino - il che significherebbe ritrovarsi con 230 persone licenziate, di cui 170 a Sparone. E potrebbe persino capitare che la Tiberina abbia la possibilità di ripartire ottenendo degli incentivi. Abbiamo già chiesto un incontro urgente con il curatore. Venerdì mi ha chiamato il sindaco di Sparone, lunedì parlerò con l’assessore regionale Pentenero. Bisognerà anche vedere cos’abbia intenzione di fare la Tiberina: finora non si è mai esposta, ha sempre governato le situazioni da lontano”. Bellino chiama in causa la FIAT-FCA: “Ha un debito nei confronti di questo territorio: è qui che ha sempre fatto fare i lavori più sporchi ed ingrati. Venerdì in fabbrica erano in pochi perché è giorno di Cassa Integrazione. Lunedì discuteremo il da farsi ma prima di prendere delle iniziative dovremo sapere con precisione cos’ha stabilito il Tribunale”.
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