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Chi era Najoua Minniti, la mamma che ha ucciso il figlio. Già un anno fa all'ex marito: "Saluta bene Elia perché lo porto con me"

Le indagini confermano l’ipotesi dell’omicidio-suicidio: decisiva l’autopsia sul corpo del piccolo

Chi era Najoua Minniti, la mamma che ha ucciso il figlio. Già un anno fa all'ex marito: "Saluta bene Elia perché lo porto con me"

Chi era Najoua Minniti, la mamma che ha ucciso il figlio. Già un anno fa all'ex marito: "Saluta bene Elia perché lo porto con me"

L’autopsia dovrà fissare i contorni esatti, ma per gli investigatori Elia, 8 anni, sarebbe morto per asfissia meccanica, probabilmente soffocato o strangolato nel sonno da sua madre, Najoua Minniti, 35 anni, poi ritrovata senza vita in mare. Una sequenza di ore che gli inquirenti definiscono già oggi come la pista più solida: omicidio–suicidio.

Il piccolo era nel letto matrimoniale, con il pigiama addosso, nella stessa stanza in cui dormiva abitualmente accanto alla madre. Sul corpo nessun segno di violenza, nessuna ferita. Solo il sospetto, sempre più concreto, che la morte risalga alla notte tra il 17 e il 18 novembre. Da quel momento di lui non c’è stato più alcun movimento. L’ultima traccia viva: il rientro da scuola di lunedì, quando era stata proprio la mamma a passarlo a prendere.

Il giorno dopo, invece, sarebbe toccato al padre. Fabio Perrone, infermiere a Casarano, quella mattina si presenta a scuola convinto che il figlio dovesse cominciare la settimana con lui, come stabilito dal giudice dopo la separazione. Ma Elia a scuola non è mai arrivato. Neppure la madre risponde al telefono. L’uomo chiama, chiede, cerca. Poi, alle 18, formalizza ai carabinieri la denuncia di irreperibilità di entrambi.

Secondo la ricostruzione degli investigatori, dopo aver ucciso il bambino, la donna avrebbe lasciato l’abitazione di Calimera, salendo in auto fino alla costa vicina. Dai faraglioni di Sant’Andrea, nel tratto di mare di Torre dell’Orso, si sarebbe gettata in acqua. Il corpo è stato recuperato nel tardo pomeriggio dalla Capitaneria di Porto. Il telefonino non è stato trovato: i tabulati, ora al vaglio, potrebbero chiarire gli ultimi spostamenti.

Najoua Minniti

A rendere ancora più cupo il quadro c’è un documento protocollato al Comune di Calimera il 16 dicembre 2024. È l’esposto che il padre aveva scritto dopo un incontro teso con la ex compagna. Parole che oggi suonano come un presagio: «Ritieniti responsabile di qualsiasi cosa capiti a me e al bambino», «Saluta bene Elia perché lo porto con me», «È già capitato che io sia andata di fronte al mare con la macchina». Timori messi nero su bianco, inviati alle istituzioni, mai abbastanza ascoltati.

Il sindaco, Gianluca Tommasi, conferma che la donna era «già segnalata ai servizi sociali», ma senza ulteriori dettagli. Racconta di averla incrociata spesso davanti alla scuola, come una madre qualunque. «Non ho mai notato nulla di strano», dice. Anche il marito gli appariva «una persona sorridente». Nessun sospetto evidente, nessun allarme raccolto.

Chi era Najoua? Una vita attraversata da spostamenti e fratture. Origini calabresi, madre tunisina, un decennio nel parmense, poi il trasferimento definitivo in Salento durante il Covid. Dietro, il lutto devastante della morte del fratello nel 2014. Davanti, un lavoro stagionale nei villaggi turistici, una separazione difficile, periodi di depressione, frasi che lasciavano intravedere il rischio di un gesto estremo. Anche un anno fa, raccontano alcune fonti, avrebbe parlato di mare e di morte, coinvolgendo idealmente anche il figlio.

Sui social appariva diversa: molti selfie, qualche foto con Elia, il cane, la musica reggae, le immagini al mare, «il mio posto preferito», scriveva. Una madre che pubblicava «Ti amo, cuore di mamma» e «La mia felicità». Una donna che cercava stabilità in una quotidianità fragile. Ma la mattina di ieri qualcuno l’ha vista discutere al telefono, agitata. Poi più nulla.

Calimera, seimila abitanti, oggi è sospesa tra incredulità e sgomento. Prima il ritrovamento del cadavere in mare, poi la seconda tragedia, quella del bambino, in casa. C’è chi parla di segnali non compresi, chi di un dolore troppo grande per essere visto. Il padre avrebbe riconosciuto la donna grazie al tatuaggio sulla spalla: un fiore di loto, simbolo – scriveva lei stessa – di «resistenza psicologica e capacità di trasformare le avversità in potenzialità».

Questa volta, però, nessuna trasformazione è arrivata. Solo la fine di due vite, nel silenzio di una casa e nel vento amaro della costa salentina.

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