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Cronaca

Tre anni ai domiciliari per il “ras delle soffitte”: crolla l’impero di Giorgio Molino

Dal maxi sequestro al patteggiamento, la fine del sistema che per decenni ha affittato cantine e soffitte ai più fragili. Un patrimonio da oltre 1.400 unità, 270 mila euro trovati nei doppi fondi e una città che ora deve fare i conti con il suo vuoto abitativo

Tre anni ai domiciliari per il “ras delle soffitte”: crolla l’impero di Giorgio Molino

Tre anni ai domiciliari per il “ras delle soffitte”: crolla l’impero di Giorgio Molino

Tre anni ai domiciliari e un maxi versamento al fisco: è con questo risultato che termina ufficialmente — almeno nella forma — la carriera di Giorgio Molino, 83 anni, conosciuto da anni come il “ras delle soffitte” di Torino. L’accordo prevede, oltre alla detenzione domiciliare, un pagamento di circa 7 milioni di euro in imposte evase. È un epilogo che segna un punto di svolta, ma al tempo stesso lascia aperti molti interrogativi: quanto del sistema che ha gestito cesserà davvero? E soprattutto, cosa resta delle migliaia di famiglie che hanno abitato quegli spazi?

La vicenda giudiziaria che ha portato Molino a questo patteggiamento trae origine da una complessa indagine della Guardia di Finanza di Torino coordinata dalla pubblica ministero Elisa Buffa. Tra il 2019 e il 2022, secondo l’accusa, la galassia immobiliare di Molino avrebbe incassato canoni per circa 42 milioni di euro non dichiarati — un vero e proprio giro d’affari sommerso che ha fatto scattare sequestri per oltre 7,7 milioni di euro.

Nel dettaglio, la Guardia di Finanza ha sequestrato circa 6,6 milioni per la frode fiscale contestata e ulteriori 540 mila euro ritenuti provento di autoriciclaggio. In uno degli immobili riconducibili all’imprenditore sono stati trovati 270 mila euro in contanti, nascosti in doppi fondi ricavati nei mobili.

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Le contestazioni mosse a Molino sono pesanti: reati quali false comunicazioni sociali, appropriazione indebita, evasione fiscale, autoriciclaggio, impiego di denaro illecito e truffa ai danni dello Stato. Il sistema contestato dagli inquirenti comprendeva l’uso sistematico di associazioni di promozione sociale (Aps) o enti no profit che, formalmente esenti da finalità lucrative, fungevano da schermo per l’attività di locazione commerciale.

Prima che i termini del patteggiamento venissero definiti, la giudice Valeria Rattazzo ha disposto una consulenza medico-legale per verificare se Molino fosse ancora “capace di stare in giudizio”. In passato, infatti, una perizia lo aveva dichiarato incapace, permettendo un proscioglimento in un procedimento precedente. Il nuovo accertamento ha stabilito che poteva partecipare al processo, permettendo così l’accordo.

Ma chi è l’uomo che per decenni ha gestito quella galassia immobiliare? La storia di Giorgio Molino si intreccia con la Torino meno visibile. Da tempo immemorabile, la famiglia Molino – già all’inizio del XX secolo – affittava stanze ai primi immigrati (veneti, meridionali) che arrivavano in città. Col tempo, quel nucleo originario si è trasformato in un impero: secondo le ricostruzioni, più di 1.400 unità immobiliari (soffitte, cantine, box, posti auto) sparse nei quartieri popolari di Aurora, Barriera di Milano, Lingotto. Alcune fonti parlano addirittura di 1.500 o più. Le condizioni di molti di quegli alloggi erano drammatiche: spazi minuscoli, talvolta formalmente destinati a deposito o cantina, ma in pratica abitati, spesso a inquilini con condizioni economiche molto fragili.

Il modello era semplice: affitto a redditi bassi, spesso pagamenti in contanti, contratti non registrati o intestati ad altro soggetto, spazi non conformi, locazioni che sfuggivano al mercato regolare. Le indagini hanno evidenziato casi in cui intere famiglie vivevano in cantine o in “soffitte” prive di finestre o con finestre minuscole, pareti umide, bagni condivisi, condizioni igienico-sanitarie al limite. Le associazioni per il diritto all’abitare hanno parlato di vera e propria caporalato abitativo: forme di sfruttamento della fragilità abitativa che prosperano nel vuoto istituzionale.

Le istituzioni locali non hanno nascosto la propria irritazione. Il sindaco Stefano Lo Russo ha definito Molino «una delle persone più nefaste di questa città» parlando di abusivismo e sfruttamento immobiliare; l’assessore regionale Maurizio Marrone ha proposto pubblicamente l’idea di espropriare gli immobili di chi gestisce queste rendite parassitarie per destinarli all’edilizia sociale. Dal canto loro, gli eredi della galassia Molino – in particolare il figlio Giuseppe Molino, notaio, e la moglie della famiglia, Marianna Lucca – hanno annunciato l’obiettivo di “mettere in regola” il patrimonio e offrire parte degli immobili alla città, in un gesto che è letto da alcuni come mossa difensiva.

La complessità della rete gestionale è impressionante: nell’indagine sono state citate circa 18 soggetti giuridici, tra società semplici, Srl, associazioni, spesso “a valle” dell’imprenditore, finalizzate a stipulare i contratti, incassare i canoni e operare allo scopo. Alcune delle società coinvolte: Immobiliare San Giuseppe, Medea Uno, Acaja, Beatrice, Valle Pellice Immobiliare, www.affittitorino.org. Il meccanismo era quello dello schermo societario: la proprietà resta in capo a Molino, ma la soglia fiscale e l’evidenza pubblica si riducono al minimo.

Sul piano urbanistico e sociale, il caso Molino rappresenta un punto d’imbocco verso più ampi problemi di Torino: l’emergenza abitativa, la mancanza di alternative per chi è escluso dal mercato regolare, il degrado di parti della città che restano fuori dal ricorso alle politiche pubbliche. Come sottolinea l’inchiesta di Altreconomia, quegli spazi sono parte del “vuoto istituzionale” che qualcuno riempie.

E ora? Con la condanna-accordo, formale e tecnica, Molino dovrà scontare i domiciliari, versare la somma concordata, vedere come sarà gestita la sua rete dal figlio e dalla moglie, che hanno preso in mano la gestione. Ma la partita va oltre: riguarda la qualità dell’abitare di molte famiglie, tocca il diritto alla casa, confronta mercato, welfare, legalità. Perché il micro-alloggio non è un’abitudine ordinaria: è la soglia estrema di chi non ha accesso all’abitazione normale.

Il caso Molino non è soltanto la storia di un imprenditore che navigava tra cavilli fiscali e spazi nascosti: è la storia di una città che si trova a confrontarsi con due urgenze parallele — emergenza abitativa e controllo delle rendite immobiliari speculative. Ed è una storia che chiama in causa istituzioni e politici: quanto tempo si può permettere che la risposta abitativa sia affidata a chi pure abita la zona grigia della legalità?

La condanna è un passo. Ma la domanda vera: cosa accadrà agli oltre mille alloggi, quali saranno le condizioni da oggi in poi, come cambierà l’affitto per quelle famiglie? Torino ha fatto il suo dovere sul piano giudiziario. Ma sul piano sociale, c’è molto ancora da scrivere.

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