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Cronaca
14 Novembre 2025 - 07:52
C’è una domanda che continua a rimbalzare fra le vie di Candia Canavese: com’è possibile che l’odio riesca ancora a infilarsi nelle case della gente, travestito da busta affrancata? La risposta, amarissima, è arrivata ieri, quando una famiglia di fede musulmana – italianissima, due figlie nate qui, integrate qui, cresciute qui – ha trovato nella cassetta della posta una lettera anonima intrisa di un razzismo vecchio, rancido, vigliacco. Dentro, parole sgrammaticate e violente: “Sciiti di merda… Allah vi sta punendo… vi distruggeremo… ricordatevi piangendo il 7 ottobre.” E, come se non bastasse, due fotografie appiccicate alla meno peggio, a mo’ di minaccia simbolica.
È successo davvero, qui, nel Canavese. Non in qualche periferia abbandonata, non in un racconto cupo pescato da chissà dove. Nella Candia dove il sindaco Mario Carlo Mottino si è trovato costretto a denunciare pubblicamente un episodio che definire vergognoso è ancora poco.
La figlia della famiglia, giovane donna che parla di rispetto e radici italiane con la naturalezza di chi considera questo Paese la propria casa, ha spiegato con lucidità le ragioni della loro esposizione di una bandiera palestinese sul balcone: un gesto pacifico, un simbolo di solidarietà verso tutte le vittime di una guerra che non hanno scelto. Nessun estremismo, nessuna provocazione. Solo la convinzione – tanto semplice quanto nobile – che il dolore degli innocenti merita vicinanza, non silenzi.
Eppure qualcuno, nascosto nell’ombra come i pavidi che tirano il sasso e ritraggono il braccio, ha deciso che quella famiglia andava punita. Perché? Perché musulmana. Perché solidale. Perché non abbastanza “allineata”. L’anonimato, come sempre, fa da scudo ai codardi. I quaqquaraquà – come li definisce lo stesso sindaco – non firmano mai.
Mottino, con una franchezza rara nella politica locale, ha espresso vergogna, indignazione e solidarietà. Ha ricordato che “gli insulti qualificano chi li fa, non chi li riceve”. Ha rivendicato la Candia civile, quella fatta dalla stragrande maggioranza dei cittadini. E ha appoggiato la scelta della famiglia di sporgere denuncia ai carabinieri, la sola strada possibile quando l’odio tenta di mettere radici.
Ma la questione non finisce nel perimetro di un paese di poche migliaia di abitanti. Non riguarda solo Candia. È un sintomo di un’Italia che sembra scivolare ogni giorno un po’ di più verso una normalizzazione del razzismo, delle minacce, della disumanizzazione dell’altro. Un’Italia in cui l’odio è diventato linguaggio corrente, tollerato, sdoganato persino nelle forme più meschine, come una lettera infilata di notte nella posta di una famiglia che chiede solo di vivere in pace.
Dovremmo domandarci – tutti – quando abbiamo smesso di indignarci. Quando abbiamo accettato che qualcuno si permetta di evocare il 7 ottobre come avvertimento da usare contro concittadini che nulla hanno a che vedere con il terrorismo. Quando abbiamo deciso che l’empatia è un lusso e la convivenza una concessione.
Il sindaco promette che continuerà a contrastare il razzismo con ogni mezzo istituzionale. Bene, è necessario. Ma serve di più: serve che la comunità si riconosca nelle vittime, non nei carnefici anonimi; che alzi la voce, che non lasci sole queste famiglie, che dica chiaramente da che parte sta.
Perché il vero banco di prova non è la lettera anonima. È ciò che Candia – e l’Italia – decideranno di fare dopo. E se sceglieranno, finalmente, di non lasciare che l’odio detti l’agenda della quotidianità.
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