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Cronaca
02 Novembre 2025 - 11:15
Il padre porta la droga al figlio in carcere: scoperto, scoppia l'inferno
È bastato un paio di scarpe per far esplodere il caos: nel carcere di Torino un padre in visita al figlio detenuto ha passato circa 52 grammi di cocaina nascondendoli nella scarpa da ginnastica. Durante il colloquio nel padiglione A dell’istituto, il gesto – apparentemente banale – è stato notato dal personale di vigilanza.
Risultato: colloquio interrotto, controllo immediato, sostanza scoperta. E innesco di una furia inattesa: il detenuto ha iniziato a distruggere porte, suppellettili, computer nella sala colloqui; poi nel padiglione ha sfondato altre porte, ha danneggiato l’impianto antincendio, ha sputato contro agenti e chiunque si avvicinasse.
Dopo un intervento complesso e rischioso è stato trasferito in isolamento. Il padre è stato arrestato per introduzione di stupefacenti, il figlio per i nuovi gravissimi reati commessi.
Il sindacato OSAPP, per bocca del segretario generale Leo Beneduci, ha colto l’occasione per alzare il volume dell’allarme: «Ormai i detenuti pensano di poter fare ciò che vogliono nelle nostre carceri, manifestando una violenza inaudita. Le carceri sono diventate vere piazze di spaccio… mentre la Polizia Penitenziaria, lasciata sola da politica e istituzioni, continua a fronteggiare situazioni sempre più difficili».
La cronaca specifica di Torino – gesti di introduzione di stupefacenti, distruzione di beni, aggressione del personale – non è un’eccezione isolata, ma sembra farsi specchio di una situazione penitenziaria che va ben oltre il singolo episodio.
Nel sistema carcerario italiano la pressione è ormai a livelli esplosivi: al 31 luglio 2025, gli strumenti ufficiali indicano una capienza regolamentare di circa 51 300 posti contro 62 569 detenuti presenti, con un sovraffollamento medio nazionale stimato al +22 %.
Il monitoraggio suggerisce inoltre che in molti istituti il numero di detenuti eccede di gran lunga il 40-50% la capienza prevista.
In parallelo emergono numeri inquietanti: dalla testata giornalistica del settore si apprende che dall’inizio del 2025 sono 46 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane.
Le ragioni sono molteplici: sovraffollamento, assenza di supporti sanitari e psichiatrici adeguati, strutture fatiscenti, disagio umano e istituzionale.
Il caso di Torino mostra che quando la gestione degenera, la sicurezza interna salta. Non solo traffici di stupefacenti all’interno, ma anche atti distruttivi che mettono a rischio agenti e detenuti, oltre che l’ordine istituzionale. L’OSAPP denuncia che in molti istituti la Polizia Penitenziaria è spesso “in balia” di contesti che avrebbero bisogno di risorse, organici e interventi strutturali.
Ecco il nodo: non basta intervenire caso per caso. Se – come denuncia – «le carceri sono diventate vere piazze di spaccio e laboratori di alcol abusivi», la risposta non può essere solo repressione nei singoli episodi, ma una riforma che ripensi la detenzione, gli ambienti, la formazione, l’organico, la prevenzione.
L’episodio torinese diventa dunque simbolico: non solo per la gravità, ma perché mette in luce come un sistema in affanno – sovraffollato, senza risorse, agitato – possa degenerare rapidamente. Le istituzioni sono chiamate a rispondere: le agenzie di vigilanza, i ministeri competenti, le politiche penitenziarie. E i cittadini devono ricordare che la detenzione non è solo lo spazio del privilegio punitivo, ma luogo dove la legalità va tenuta viva, anche tramite il rispetto delle regole, la protezione di chi lavora dietro le sbarre e la garanzia della dignità.
Se non si interviene ora, episodi come quello del carcere di Torino rischiano di diventare routine. E la domanda torna sempre più urgente: che senso ha una pena che peggiora le condizioni di chi la sconta e di chi la gestisce?

Il sovraffollamento non è un dettaglio statistico: è il punto di rottura che spiega molti dei fatti degli ultimi mesi in Piemonte. Alla data del 30 giugno 2025, il DAP certifica 4.574 presenze contro 3.975 posti negli istituti piemontesi. È una fotografia ufficiale che mette la regione sopra la soglia di allerta. Sul piano locale, nel pieno dell’estate Torino è arrivata a 1.491 ristretti per 1.118 posti, Ivrea a 259 per 195, mentre Alessandria San Michele ha toccato un tasso stimato del 142%. La traduzione pratica è semplice: meno spazio, più conflitti, più rischi per agenti e detenuti.
Questo quadro spiega la densità degli episodi a Torino nell’arco di pochi giorni. Il 19 ottobre la penitenziaria ha sventato lanci dall’esterno con hashish, cocaina e micro-telefoni; il 24 ottobre un detenuto ha incendiato la cella, costringendo all’evacuazione di un’intera sezione; il 29 ottobre la tentata introduzione di 52 grammi di cocaina al colloquio è degenerata in devastazioni. Tre tasselli, stesso copione: pressione interna e reattività disperata che si traduce in violenza, sabotaggi e traffici.
La sicurezza del personale è il primo barometro che impazzisce. In dieci mesi 25 aggressioni dentro il Lorusso e Cutugno, con 36 agenti feriti: numeri forniti dall’OSAPP che raccontano un lavoro sempre più esposto e una catena di comando che fatica a reggere l’urto quotidiano. Quando le sezioni sono piene, ogni movimentazione — colloqui, infermeria, traduzioni — moltiplica i punti di rischio. Non è un caso che i sindacati parlino di “carceri colabrodo” e chiedano schermature tecnologiche e dotazioni anti-intrusione.
Alla pressione fisica si somma la crisi umana. Nel 2025 i suicidi in carcere in Italia hanno già toccato quota 46 ad agosto, secondo il Garante, un dato rilanciato anche da Giornale La Voce. Sono numeri che, letti dal Piemonte, spiegano perché ogni episodio non è un caso isolato ma il sintomo di un ecosistema fragile: celle sovraffollate, sanità penitenziaria insufficiente, salute mentale senza reti solide. Qui la sicurezza non è in antitesi con la dignità, ma ne è la premessa: più prevenzione significa meno violenza, meno traffici, meno autolesionismo.
Che fare, allora? Le proposte sul tavolo sono note: misure alternative per i reati minori per decomprimere gli istituti; rafforzamento degli organici e formazione per la Polizia Penitenziaria; schermature per bloccare telefoni e droni; investimenti nelle strutture e nella salute mentale. Non sono slogan, sono condizioni minime per impedire che i prossimi titoli si scrivano da soli. Nel frattempo, la cronaca di Torino insegna: basta un paio di scarpe — e un sistema al limite — perché l’ordine crolli in pochi minuti.
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