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Cronaca

Il guanto sparito e l’ombra dello Stato: arrestato l’ex prefetto Piritore per il depistaggio sull’omicidio di Piersanti Mattarella

A quarantacinque anni dal delitto che sconvolse la Sicilia, l’inchiesta torna a Palermo: agli arresti domiciliari l’ex prefetto Filippo Piritore, accusato di aver fatto sparire un reperto chiave, il guanto ritrovato nella Fiat 127 dei killer di Piersanti Mattarella. Una nuova crepa nella lunga storia dei silenzi di Stato attorno al presidente che voleva una Sicilia “con le carte in regola”

Il guanto sparito e l’ombra dello Stato: arrestato l’ex prefetto Piritore per il depistaggio sull’omicidio di Piersanti Mattarella

Piersanti Mattarella

E' la mattina del 24 ottobre 2025 quando la notizia è rimbalzata da Palermo a Roma, fino a scuotere gli uffici del Viminale: Filippo Piritore, ex prefetto, ex questore, uomo delle istituzioni, è finito agli arresti domiciliari. L’accusa? Depistaggio. Ma non un depistaggio qualsiasi: quello che, a quarantacinque anni di distanza, continua ad avvelenare la verità sull’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1980.

Secondo la Procura di Palermo, Piritore avrebbe avuto un ruolo chiave nella sparizione del guanto trovato nella Fiat 127 bianca usata dai killer per fuggire dopo l’omicidio. Un dettaglio apparentemente minore, un oggetto dimenticato in un fascicolo ingiallito, ma che oggi diventa un simbolo di tutto ciò che lo Stato ha mancato di fare — o ha voluto non fare — per arrivare fino in fondo a quella storia. Gli inquirenti sono chiari: quel guanto poteva essere il reperto decisivo, un frammento di pelle, un’impronta, un residuo biologico in grado di collegare per sempre un volto, un nome, a quella mattina di sangue in via Libertà. Invece, il guanto è sparito.

E proprio Filippo Piritore, allora giovane funzionario della Squadra Mobile di Palermo, ne era il consignatario. Fu lui a riceverlo dalla Scientifica, fu lui a occuparsi del suo deposito. Ma da quel momento il guanto svanisce nel nulla. Gli atti si fermano lì. Nessun verbale di repertazione successivo, nessuna analisi, nessun riferimento nei fascicoli giudiziari. È come se quel pezzo di pelle nera non fosse mai esistito.

Quarantacinque anni dopo, la Procura di Palermo ha deciso di riaprire quella ferita. Secondo l’accusa, Piritore avrebbe reso dichiarazioni false e prive di riscontro, fornendo una versione dei fatti che avrebbe “contribuito a far disperdere ogni traccia” di quel reperto. Non un errore, dunque, ma un’azione deliberata, un tentativo di “inquinare” la verità. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto e da un gruppo ristretto di magistrati specializzati in reati contro la pubblica amministrazione, è partita in sordina, scavando tra faldoni dimenticati e deposizioni contraddittorie. Alla fine, l’arresto è arrivato. E con esso, il riemergere di un fantasma: quello dell’omicidio che, più di ogni altro, ha segnato la storia politica della Sicilia e dell’Italia.

Il 6 gennaio 1980 era una domenica. Palermo si svegliava lenta, tra la brezza del mare e le strade ancora vuote. In via Libertà, una delle arterie eleganti della città, Piersanti Mattarella stava uscendo di casa per andare a messa. Con lui c’erano la moglie Irma Chiazzese, la figlia Maria e la suocera. Era un uomo sereno, ma preoccupato: sapeva di essere nel mirino. Da mesi riceveva avvertimenti, pressioni, intimidazioni. Ma non aveva intenzione di fermarsi. Da presidente della Regione Siciliana, eletto nel 1978, Mattarella aveva intrapreso un cammino di pulizia morale e politica che, per la prima volta, minava alla base l’intreccio perverso tra mafia, affari e politica.

Aveva pronunciato parole che in quegli anni suonavano rivoluzionarie: “Voglio una Sicilia con le carte in regola.”Aveva sfidato le clientele della Democrazia Cristiana, il sistema degli appalti truccati, la speculazione edilizia, gli imprenditori collusi. Aveva imposto controlli più rigidi, aveva fatto approvare leggi che tagliavano fuori le imprese “amiche” di Cosa Nostra dai cantieri pubblici. Aveva, insomma, toccato il nervo scoperto.

Quando l’auto si fermò al semaforo tra via Libertà e via Nicolò Garzilli, due uomini si avvicinarono. Uno di loro estrasse una pistola e sparò a bruciapelo. I colpi attraversarono il vetro e lo colpirono al torace. Piersanti Mattarellaebbe solo il tempo di voltarsi verso la moglie e sussurrare parole che nessuno dimenticherà: “Irma, non è niente.” Morì poco dopo, sull’asfalto, in mezzo a una folla che cominciava a radunarsi, attonita.

Quell’omicidio fu un terremoto. Non solo per la Sicilia, ma per tutto il Paese. Perché Mattarella non era un politico qualsiasi. Era il simbolo di un’altra possibile via: quella della moralizzazione della politica, della legalità applicata al potere. Ma quella via dava fastidio. A molti. Dentro e fuori dal suo stesso partito.

Le prime indagini furono un labirinto. Alcuni cercarono di accreditare la pista politica, altri quella terroristica. Qualcuno arrivò perfino a parlare di “complotti neri”, di estremisti infiltrati. Poi, pian piano, la verità prese forma. A uccidere Piersanti Mattarella fu Cosa Nostra, con la complicità di una parte di quel mondo politico ed economico che il presidente stava provando a scardinare.

I pentiti — Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Giovanni Brusca — raccontarono anni dopo che l’ordine era partito dai vertici della Cupola: Salvatore Riina, Stefano Bontate, Antonino Inzerillo. Il movente? Le sue riforme. Quelle che toglievano ossigeno agli appalti truccati, alle imprese mafiose, ai flussi di denaro che univano boss e politici.

Nel frattempo, le indagini proseguivano tra errori, silenzi, omissioni. E proprio in quei giorni cruciali comparve il guanto. Gli agenti lo trovarono dentro la Fiat 127 bianca utilizzata dai killer per la fuga, abbandonata poco lontano dal luogo dell’agguato. Un dettaglio che poteva rivelarsi decisivo: un frammento di cuoio, una cucitura, forse anche tracce biologiche. Era un indizio, uno di quelli che — se trattato correttamente — poteva cambiare tutto.

Ma quel guanto, per l’appunto, scomparve. E oggi sappiamo che l’uomo che lo prese in consegna fu Filippo Piritore, allora giovane poliziotto della Squadra Mobile di Palermo. La Polizia Scientifica glielo consegnò per la catalogazione, ma il reperto non venne mai più repertato. Nessun laboratorio lo analizzò, nessun magistrato lo vide. Niente più guanto, niente più prova.

Oggi, la Procura di Palermo accusa Piritore di aver “favorito la dispersione del reperto” e di aver fornito, negli anni, una versione dei fatti “del tutto priva di riscontro”. Nelle carte dell’inchiesta si parla di “dichiarazioni fuorvianti”, di “comportamenti ostativi al corretto svolgimento delle indagini”. Una formula giudiziaria che, tradotta, significa una cosa semplice: qualcuno, dentro lo Stato, non voleva che la verità emergesse.

E Piritore non è un uomo qualsiasi. La sua carriera, lunga e piena di incarichi prestigiosi, lo ha portato a essere questore a Genova, a L’Aquila, a Caltanissetta, poi prefetto a Isernia. Un uomo stimato, che nel corso degli anni aveva costruito una reputazione solida, fino a diventare simbolo di quella burocrazia dello Stato che sopravvive a ogni stagione. Ma ora, tutto si ribalta.

Le immagini della polizia che gli notificano il provvedimento cautelare in casa sua, a Roma, hanno riaperto ferite antiche. Perché il caso Mattarella è una di quelle pagine che non si chiudono mai davvero. Troppi silenzi, troppi vuoti. Da sempre, attorno a quell’omicidio, aleggia la sensazione che la verità completa sia stata nascosta dietro una cortina di fumo.

E quel guanto — un semplice guanto di pelle — diventa la metafora di tutto questo: un frammento di verità sottratto alla giustizia. Un oggetto che poteva raccontare chi c’era nell’auto, chi impugnò la pistola, chi strinse il volante. Invece, fu cancellato. Come tanti altri indizi in quella stagione di sangue, in cui lo Stato e la mafia si osservavano allo specchio e non sempre era chiaro chi fosse chi.

C’è una frase che ritorna spesso nelle parole di chi conobbe Piersanti Mattarella: “Era un democristiano diverso.” E lo era davvero. Quando parlava di trasparenza, non usava la parola come uno slogan, ma come un dovere morale. Riformò la burocrazia regionale, tagliò i privilegi, impose controlli sugli appalti. Aveva il coraggio di denunciare le distorsioni del sistema anche dentro la sua stessa Democrazia Cristiana, dove certi rapporti con i potentati mafiosi erano tollerati, se non addirittura favoriti.

Aveva toccato i fili scoperti del potere. Aveva imposto regole che tagliavano le unghie agli speculatori dell’edilizia palermitana, molti dei quali legati a Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e figura chiave del compromesso tra politica e mafia. Non stupisce, quindi, che Cosa Nostra lo considerasse un nemico. Ma a spaventare di più fu il suo tentativo di cambiare la cultura politica della Sicilia, di introdurre una visione etica, di ribellarsi all’idea che tutto dovesse restare com’era.

Negli ultimi mesi prima dell’omicidio, Piersanti Mattarella aveva confidato ad alcuni collaboratori di sentirsi isolato. I rapporti con Roma erano tesi, la sua linea moralizzatrice non trovava sponde. Ma lui continuava. Aveva incontrato anche Aldo Moro, che lo stimava molto, e che gli aveva suggerito di andare avanti con prudenza. Ma la prudenza non bastò né a Moro né a lui. Entrambi sarebbero caduti vittime di una violenza che aveva lo stesso volto: quello del potere corrotto e della paura del cambiamento.

Il 6 gennaio 1980, quando le sirene squarciarono la calma domenicale, Palermo capì che qualcosa era finito per sempre. Il corpo del presidente, riverso sul sedile, fu coperto con un cappotto. La moglie Irma lo accarezzava, urlava, chiedeva aiuto. Le foto di quella scena fecero il giro del mondo. Eppure, quarantacinque anni dopo, la verità è ancora lì, a metà strada tra il tribunale e la memoria.

Filippo Piritore

L’arresto di Filippo Piritore (in foto) non è soltanto una notizia giudiziaria. È un atto politico, simbolico, morale. È il ritorno di un sospetto: che dentro lo Stato, accanto agli eroi che combatterono e morirono per la verità, ci furono anche coloro che la verità la nascosero, la distorsero, la cancellarono.

Oggi, a quarantacinque anni di distanza, quel guanto è diventato la misura di un fallimento collettivo. Un piccolo oggetto che racconta tutto: la paura di guardare in faccia i propri fantasmi, la tendenza a coprire gli errori, la vigliaccheria di chi sceglie l’oblio invece della giustizia.

Eppure, il nome di Piersanti Mattarella continua a essere pronunciato con rispetto. Ogni 6 gennaio, davanti alla lapide di via Libertà, si radunano cittadini, studenti, rappresentanti delle istituzioni. Anche il fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica, è sempre lì, in silenzio, con lo sguardo basso e le mani giunte. Non servono parole.

La storia dell’omicidio Mattarella è la storia di un Paese che lotta da decenni con le proprie ombre. È la storia di una Sicilia che ha conosciuto uomini come Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone e Borsellino — e che ogni volta ha visto nascere la speranza e poi l’ha vista morire sotto i colpi della paura.

L’arresto di Filippo Piritore è solo l’ennesimo capitolo di questa lunga battaglia. Non riporterà indietro il tempo, non restituirà il guanto perduto, ma forse potrà servire a ricordarci che la verità non si prescrive. Che, anche dopo quarantacinque anni, la giustizia può bussare alla porta di chi pensava di essersi salvato.

E chissà, forse un giorno sapremo chi era quell’uomo che premette il grilletto, chi guidava la 127 bianca, chi ordinò di premere il silenzio su tutto. Fino ad allora, resterà soltanto un nome inciso nella memoria del Paese, un nome che continua a chiedere giustizia: Piersanti Mattarella, l’uomo che voleva dare alla Sicilia le carte in regola, e che per questo fu condannato a morte da chi le regole non le ha mai volute rispettare.

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