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Cronaca
17 Settembre 2025 - 22:37
Respinto all’ingresso: Il colore della pelle che divide una serata a Torino
Una serata come tante, un gruppo di amici che cerca di varcare la soglia di una discoteca torinese per ballare, ridere e dimenticare per qualche ora le fatiche della settimana. Ma all’ingresso, la leggerezza svanisce. Uno dei buttafuori li blocca, li osserva con sguardo diffidente e poi spara la sentenza: «Voi siete casinisti». Parole che pesano come pietre, perché non sono solo un rifiuto all’ingresso di un locale: sono un muro invisibile, eretto con la forza del pregiudizio. È successo pochi giorni fa davanti al Tranquila Club e da allora il caso ha acceso un dibattito feroce: quanto siamo davvero lontani dal razzismo, e quante barriere restano ancora nella nostra quotidianità?
Gli amici erano cinque, di diverse origini, accomunati solo dalla voglia di divertirsi. Niente alcol in corpo, niente atteggiamenti aggressivi. Eppure, per loro, la serata è finita prima ancora di cominciare. «Voi siete casinisti», si sono sentiti dire, senza alcuna spiegazione ulteriore. Nessun appello, nessuna possibilità di replica. Solo l’amarezza di sentirsi respinti per un motivo tanto assurdo quanto evidente: il colore della pelle. Uno di loro racconta di essere rimasto paralizzato, incapace di reagire, come se in quell’attimo il tempo fosse tornato indietro a epoche in cui il diritto di cittadinanza e di dignità non era affatto scontato. Ed è difficile, oggi, nel 2025, in una città europea come Torino, non vedere in quel gesto il riflesso amaro di ingiustizie che speravamo sepolte.
E non è stato l’unico episodio recente. Poche sere dopo, arriva un’altra segnalazione: un sedicenne di origini colombiane, figlio di ricercatori universitari, racconta di essere stato respinto all’ingresso del Blackmoon, proprio durante una serata dal nome a dir poco evocativo, “White Party”. Un dettaglio che, messo accanto alla dinamica dell’esclusione, brucia ancora di più. L’adolescente aveva con sé documenti in regola, un abbigliamento adeguato, la voglia di ballare come qualsiasi coetaneo. Ma quella porta non si è mai aperta. E la sua testimonianza, carica di amarezza e incredulità, ha aggiunto ulteriore benzina al fuoco di un dibattito che non può più essere rinviato.
Questi non sono casi isolati. Negli ultimi anni sono aumentate le segnalazioni di discriminazioni all’ingresso di discoteche e locali notturni. Giovani fermati, osservati dall’alto in basso, giudicati in base alla provenienza o semplicemente all’aspetto fisico. Un filtro arbitrario che decide chi può accedere al divertimento e chi no, trasformando la notte, che dovrebbe essere libertà e spensieratezza, in un luogo di esclusione e umiliazione.
Eppure la legge italiana parla chiaro: qualsiasi forma di discriminazione legata a razza, etnia o colore della pelle è vietata, senza eccezioni, anche nei locali pubblici. Non si tratta solo di una questione legale, ma di civiltà. Lo ricordano da tempo le associazioni che si battono contro il razzismo. L’Associazione Nazionale Antirazzista ha già preso posizione, chiedendo non soltanto campagne di sensibilizzazione, ma soprattutto controlli serrati e sanzioni esemplari. Perché non basta proclamare i valori dell’inclusione: occorre renderli concreti, giorno per giorno, notte per notte, davanti a ogni porta che dovrebbe restare aperta a chiunque.
La responsabilità non ricade solo sui buttafuori, ma anche e soprattutto sui gestori dei locali, chiamati a garantire che le proprie strutture siano davvero spazi di aggregazione e non di esclusione. Il diritto di divertirsi, di ballare, di condividere una serata, non può essere negato in base a un pregiudizio. È un principio che riguarda tutti: chi subisce e chi assiste, chi resta fuori e chi entra, chi tace e chi denuncia.
Ed è proprio la denuncia l’arma più importante. Restare in silenzio significa accettare. Al contrario, raccontare l’accaduto alle autorità, raccogliere testimonianze, rivolgersi a realtà che offrono supporto legale e psicologico, è un atto di resistenza civile. Solo così si può invertire la rotta e impedire che una porta chiusa diventi una regola non scritta. Ogni testimonianza ha il potere di scalfire quel muro di ipocrisia che spesso nasconde, dietro la patina del divertimento, l’ombra scura della discriminazione.
Non è solo una questione legale, è una questione di umanità. Torino è una città fatta di storie intrecciate, di diversità che convivono e si arricchiscono a vicenda. Eppure basta una frase, detta davanti a un ingresso, per ricordarci quanto fragile sia questa convivenza. Una serata negata può sembrare poco, ma è il sintomo evidente di un problema grande, che ci riguarda tutti. Perché quando si discrimina un gruppo di amici in una discoteca, o un ragazzo in fila per un party, si discrimina un’intera comunità, si nega il principio stesso di cittadinanza.
Accendere i riflettori su episodi come questo significa smettere di fingere che il problema non esista. Significa ricordare che il diritto di essere accolti senza pregiudizi non è un favore concesso, ma un pilastro della democrazia. Il colore della pelle non può e non deve più essere un limite. Non per ballare, non per lavorare, non per vivere.
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