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Cronaca
20 Agosto 2025 - 21:57
Marco Liccione
Da simbolo delle piazze No Green Pass a Torino a imputato in più fascicoli giudiziari. Marco Liccione, 36 anni, residente a Settimo Torinese, già volto di punta del movimento contrario alle restrizioni durante la pandemia, torna al centro delle cronache. La sua vicenda racconta bene la parabola di un leader nato in piazza, osannato da una parte dell’opinione pubblica e criticato dall’altra, e oggi costretto a difendersi dentro le aule della giustizia.
Il primo fascicolo aperto in procura a Torino, affidato alla pm Valentina Sellaroli, riguarda quattro manifestazioni organizzate nel 2021, l’anno in cui il malcontento contro il Green Pass e le regole sanitarie toccava il suo apice. Il 20 marzo, quando la città era ancora in piena “zona rossa”, Liccione guidò una folla di contestatori che scelsero di sfidare apertamente i divieti. Quella giornata si chiuse con una trentina di multe per chi non indossava la mascherina o aveva violato le restrizioni sugli spostamenti: un segnale chiaro della frattura profonda tra regole imposte e volontà di ribellione.
Ma il momento più teso arrivò l’11 settembre, quando a Torino sbarcò l’ex premier Giuseppe Conte. La città era blindata, le forze dell’ordine presidiano ogni accesso, e i No Green Pass – con Liccione in testa – cercarono di farsi sentire. Spintoni, slogan, tensioni palpabili. In quell’occasione si capì che la protesta torinese aveva assunto una dimensione nazionale, capace di intercettare leader politici e riflettori mediatici.
Il 18 dicembre 2021, ultimo appuntamento di quel ciclo di mobilitazioni, il clima si fece ancora più acceso. Le cronache riportano cori e insulti contro il presidente del Consiglio Mario Draghi e il commissario straordinario Francesco Figliuolo, figure simbolo della gestione pandemica. Una piazza carica di rabbia, che segnò anche l’inizio del declino: da quel momento l’attenzione delle procure si fece più serrata, fino all’iscrizione di Liccione nel registro degli indagati per istigazione a disobbedire alle leggi.
Parallelamente, si è aperto un secondo filone d’indagine, seguito dalla pm Fabiola D’Errico, che non riguarda le piazze ma l’associazione “La variante torinese”, creata da Liccione insieme ai familiari per dare una struttura al movimento. Qui le accuse sono diverse: falso ideologico in atto pubblico e appropriazione indebita. L’ex leader respinge con forza ogni contestazione. Difeso dall’avvocato Gilberto Comotto, non ha usato giri di parole: ha parlato di «una congiura», accusando alcuni ex compagni di viaggio di essersi «presi l’associazione con carte false, convinti di poter andare avanti senza un confronto pubblico, spargendo menzogne e nascondendo altarini e scheletri nell’armadio».
Il profilo di Liccione è quello di un personaggio divisivo. Già nel 2021 il suo nome comparve nell’inchiesta sull’assalto alla sede nazionale della Cgil a Roma: insieme ad altri esponenti del movimento No Green Pass fu accusato di resistenza a pubblico ufficiale, accusa che lui respinse dichiarando di non essersi mai trovato davanti al sindacato nei momenti clou dell’assalto.
Al di là delle aule giudiziarie, la sua notorietà è stata alimentata anche dalle apparizioni televisive. Memorabile l’ospitata a Non è l’Arena di Massimo Giletti, quando lasciò lo studio dopo un acceso confronto, respingendo le accuse di legami con ambienti estremisti. In un’altra occasione sostenne di aver rifiutato un’offerta da 42mila euro, proposta – a suo dire – da una trasmissione nazionale che avrebbe voluto “comprarlo” per sostenere la sua causa.
Le proteste hanno avuto un costo personale altissimo. Liccione ha raccontato di aver perso il lavoro per via del suo impegno nelle piazze. Anche la madre, pur vaccinata, venne multata durante una manifestazione, episodio che lui citò come esempio delle contraddizioni delle regole. E non manca un aneddoto che oggi sembra quasi profetico: da bambino, raccontano le cronache, scappò dall’ambulatorio della USL per evitare un vaccino contro l’epatite, rimanendo nascosto per ore sotto un’automobile prima di essere ritrovato.
Oggi la parabola dell’ex leader torinese sembra aver cambiato scenario. Dai megafoni e dai cori sotto la Mole alle carte bollate in procura, il percorso di Marco Liccione mostra il destino di una stagione di protesta che ha segnato profondamente il dibattito pubblico durante la pandemia. Per alcuni resta il simbolo di una libertà calpestata, per altri un capopopolo che ha alimentato tensioni e divisioni. Ma il tempo delle piazze è finito. Ora, per lui, la vera battaglia si combatte davanti ai giudici.
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